La demagogia da stato etico uccide lo stato di diritto

La discussione in corso, si fa per dire, sulla carcerazione “dura”, il cosiddetto 41 bis, l’ergastolo “ostativo”, le intercettazioni e la carcerazione preventiva, si sviluppa tutta sul filo dell’ipocrisia demagogica di una politica che ha rinunciato al ruolo di guida, di proposta, e di pedagogia di massa. Di reati associativi e associazione esterna poi nemmeno si fa più finta di discutere. Eppure, si tratta di un abominio se si ragiona in termini di democrazia liberale, dove la responsabilità non può che essere individuale, legata a fatti specifici e condotte costituenti reato del singolo, accertati oltre ogni ragionevole dubbio e con la prospettiva costituzionalmente sancita di una trasformazione della condotta che possa portare a una diversa valutazione delle proprie azioni e a un pieno reintegro nella società.

Quando la Politica era dominata dal Pensiero, dopo la tragedia della dittatura, pur nelle profonde differenze di progetto antropologico e di società, i costituenti svilupparono un sistema di valori che, sebbene linguisticamente sofferente di una certa tendenza allo stato etico, garantiva tutti gli spazi di tutela e di sviluppo della vita del cittadino, anche se la sua condotta infrange in modo grave la legislazione data. Perché di questo dovrebbe occuparsi lo stato (con la “s” necessariamente minuscola) nella sua versione contemporanea: definire forme di tutela della convivenza dei cittadini, tutela della vita, dell’agibilità politica ed economica, e intervenire in modo proporzionato in caso di violazione delle norme con il solo obiettivo, pratico, di impedire la reiterazione della violazione, tutelando il prossimo e se possibile risarcendo il danno.

Senza Giudizio, che appartiene al campo della morale, da cui lo stato dovrebbe tenersi ben lontano. E senza darsi il non raggiungibile obiettivo di fare Giustizia, che anch’essa, nel caso, appartiene a ben altre sfere, ma più praticamente garantire legittimità e legalità, che per propria natura devono essere sempre mutevoli e discutibili. Il non detto dietro a ogni discussione sul carcere e sui modelli detentivi, invece, è l’errata ma diffusa e prevalente convinzione che allo Stato (maiuscolo) spetti la punizione dei cattivi, per fare Giustizia e risarcire moralmente le vittime. È questa la convinzione della stragrande maggioranza dei cittadini che non si ha il coraggio di confutare. E se non si affronta questo nodo tutto il resto del necessario percorso riformatore è azzoppato in partenza. La funzione dello stato, la funzione e il limite della legge, la tutela dei cittadini da ogni pretesa morale di stato.

A questo si aggiunge la moderna consapevolezza della mutabilità delle persone, che non possono essere definite una volta per tutte in base a un comportamento che hanno sviluppato in un determinato momento della propria vita, e la possibilità di cambiare insita nella natura umana. Non di tratta di perdono, perché non si tratta di colpa. Parole che non dovrebbero appartenere alla discussione su legalità e illegalità. Il carcere non è la punizione, giusta o sbagliata. Perché lo stato non ha il compito di punire. Uno sforzo, tutto politico, per affermare questi principi anti-intuitivi è necessaria. Più facile quando le dittature mostrano la violenza e l’ingiustizia che lo Stato può compiere ergendosi a garante della morale, della Giustizia e della condotta, come si può vedere palesemente in Iran, ma anche in Cina e in diversi altri Paesi del mondo. Come chi usciva dalla dittatura lo aveva misurato sulla propria pelle anche in Italia e per questo ne aveva consapevolezza.

Se non si riparte da qui, tutta la discussione, ammesso che discussione si possa definire la superficiale e demagogica trattazione in corso di questi argomenti nel tristemente asfittico dibattito pubblico del nostro Paese, è priva di fondamento. Nel percorso, mai compiuto, di fondazione di una vera dimensione europea della Politica questo dovrà essere il primo fondamento. Lo dovrà portare avanti un movimento nuovo che deve ancora nascere: transnazionale, transpartitico, capace di partire dal concetto di stato come sviluppato nella modernità e ridefinirne le ragioni e i confini. Uno strumento degli uomini per gli uomini, limitato e rispettoso della vita di tutti e di ciascuno.