Di solito in Russia le manifestazioni non autorizzate vengono disperse dal reparto speciale Omon della Rosgvardiya, la guardia nazionale che fa capo al Presidente. Gli omonovtsy, pretoriani di Vladimir Putin, utilizzano le tattiche antisommossa in modo efficace: sono in grado di sgombrare la piazza e arrestare centinaia di persone rapidamente, con un ricorso tutto sommato limitato alla violenza. In Russia per manifestazione non autorizzata ti danno 15 giorni di galera. I recidivi rischiano anni. La dinamica si è ripetuta a Mosca per le sparute proteste contro le riforme costituzionali che danno a Putin la possibilità di perpetuare la sua presidenza. Riforme “consacrate” il 1° luglio scorso da un plebiscito. Ma gli “omonovtsy” non sono intervenuti a Khabarovsk, città di 600mila abitanti nell’estremo oriente del Paese, dove da quasi un mese in decine di migliaia invadono le strade gridando slogan contro Putin e contro Mosca. Che è a oltre 6.000 chilometri di distanza geografica, e ad anni luce di distanza sociale, politica ed economica.

Mosca adesso ha paura ad agire. La protesta è stata innescata dall’arresto del governatore della regione, Sergei Furgal. È accusato di essere il mandante di tre omicidi di 15 anni fa. Nessuno se ne era mai davvero occupato. Fino a quando Furgal ha prima battuto alle elezioni il candidato del Cremlino, poi alimentato il consenso personale, e infine snobbato il plebiscito del 1° luglio: affluenza e numero di “sì” non in linea con i desiderata di Mosca, nella sua regione. «Per ogni membro della élite è pronto un dossier: Furgal era diventato politicamente inaffidabile. È un avvertimento anche per i suoi colleghi», ha commentato su Twitter il politologo Andrei Kolesnikov del think tank Carnegie. «Furgal è nostro», cantano i manifestanti di Khabarovsk. Non è piaciuto come il governatore è stato prelevato da agenti dei servizi federali in mimetica e trasferito nella capitale. Si chiede un processo in loco. E si allunga il tiro: «Putin dimettiti» e «Russia svegliati», gli slogan ricorrenti. La polizia locale segue i cortei da Piazza Lenin al fiume Amur, che 20 chilometri più a ovest diventa il confine con la Cina.

I poliziotti non intervengono. Anzi, fraternizzano. Distribuiscono mascherine: la pandemia colpisce duro anche qui. I media di Stato dicono che i manifestanti sono pagati da “agenti stranieri”. Durante una delle proteste una donna aveva un cartello con la foto di un propagandista di Putin, il presentatore televisivo Vladimir Solovyov, che ha una villa sul lago di Como e ha chiesto la cittadinanza italiana: «Basta con i giornalisti prezzolati», era la scritta. Questa gente è diversa dai moscoviti più o meno radicali, più o meno chic e più o meno filo-Occidentali che si oppongono al Presidente. La protesta ora viene dalla pancia del Paese. E spiazza il Cremlino. «Le autorità non sanno che fare: non vogliono gettar benzina sul fuoco», dice al Riformista Mark Galeotti, direttore di Mayak Intelligence e “putinologo” di fama. «Mosca ha paura delle regioni periferiche, teme che possano diventare quel che fu Danzica per la Polonia». A Galeotti risulta che localmente l’Fsb (il servizio per la sicurezza interna, ndr) ha anche il compito di evitare che nasca una “Solidarnosc russa“.

L’economia a Khabarovsk è da anni in recessione. Ci si salva grazie alla Cina, appena oltre il fiume. Commercio, imprenditoria trans-frontaliera. Adesso l’interscambio è fermo a causa dell’emergenza sanitaria. «Cosa ci dà Mosca, se non tasse e imposizioni?», dicono i manifestanti alle poche testate giornalistiche indipendenti. «Mosca è vista come un distante problema, non come la capitale», nota Mark Galeotti. «Mosca, vattene dai nostri fiumi, dal nostro sottosuolo, dalle nostre risorse», si legge su un cartello. Khabarovsk è nella parte di Siberia meno ricca di risorse naturali, ma rivendica in pieno la sua identità siberiana. «Tutta la Siberia è un’entità unica e cosciente del suo valore», dice lo storico Alexander Etkind, docente all’Eui di Firenze. Nel saggio Internal Colonization (Polity, 2011), Etkind racconta come la Russia abbia colonizzato sé stessa, predando le risorse naturali a vantaggio della élite. E a scapito dello sviluppo del Paese, e dell’ambiente. Secoli fa erano pellicce. Oggi, gas e petrolio. Ma la provenienza è la stessa: la Siberia. Il bello è che anche le pellicce erano prezzate e vendute in barili, proprio come il greggio. «L’economia russa funziona così », spiega Etkind al Riformista: «Le regioni della Siberia occidentale ricche di idrocarburi vendono all’Europa, e i soldi arrivano a Mosca. Che li redistribuisce al resto del Paese. E la Siberia orientale, con Khabarovsk, è all’ultimo posto nella lista dei beneficiari»·

Mosca ora annuncia finanziamenti per l’equivalente di 18 miliardi di euro. Ha nominato un nuovo governatore. «I tecnologi politici del regime fanno un errore dopo l’altro», dice Andrei Kolesnikov: «Promettere soldi e inviare un politico mai visto prima è un insulto». Ma la protesta non ha più a che fare con cariche o persone. Furgal non è un eroe liberale. Ha fatto l’imprenditore in settori in cui 15 anni fa il gangsterismo era la regola, da quelle parti. La gente lo sa bene. Protesta contro l’impossibilità di scegliere. Contro un sistema che promette solo Putin, per sempre. «Il regime vive sull’inerzia e sui successi passati», dice Mark Galeotti: «È diventato inflessibile, ha esaurito le idee. Non ha niente da offrire se non di esistere. Ma se non sa crescere e cambiare, un regime muore». Il crepuscolo potrebbe essere turbolento: «Proteste locali e focolai di resistenza saranno più frequenti», prevede Etkind. «Difficile che diventino un movimento, ma la pressione su Mosca sarà sempre maggiore». A Mosca, San Pietroburgo, Kazan e altre città ci son già state dimostrazioni a favore dei manifestanti di Khabarovsk. Il 45% dei russi è dalla loro parte, rileva un sondaggio dell’istituto Levada. Quello del 1° luglio doveva essere «un voto per la stabilità», secondo il Cremlino. Non aveva fatto i conti con la sua immensa “colonia”: la Siberia.