Il Festival e la politica
La destra si scaglia contro Sanremo, ma il Festival non è contro la destra
La Presidente del Consiglio sembra non sapere che si può essere potenti nelle istituzioni e, contemporaneamente, irrilevanti nei flussi di opinione, o, almeno, in certune correnti di opinione, in qualche occasione, persino maggioritarie. Ora sta indiscutibilmente alla testa di un governo legittimato dal consenso elettorale in cui si manifesta tutto il primato politico della destra, ma in una istituzione nazional-popolare per eccellenza, il festival di Sanremo, quella base di consenso scompare, non esiste come capacità di influenza culturale, non esiste proprio.
Si pensi, al contrario, a quanto fosse culturalmente “democristiana” la Sanremo della prima repubblica. Altro che nazione e popolo, troppo resta fuori in essa del comando della destra. Si badi bene, fuori, non contro. Di quest’ultimo versante, è vero solo il rovescio, perché la destra si è sentita minacciata senza che, a Sanremo, qualcuno ci abbia neanche pensato, né, tanto meno provato. Questa destra sembra non sapere che il festival non è contro, non può essere contro perché è la natura stessa di Sanremo, dello spettacolo, che glielo impedisce.
Consiglierei ai suoi arrabbiati esponenti, in particolare a quelli di governo, la lettura del libro di Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto. Ma facciamola più semplice. Il tema è, al fondo, quello dei diritti della persona. Sul rapporto tra il tema e Sanremo è stato illuminante l’articolo di Lea Melandri, apparso su questo giornale, che analizza lucidamente la relazione complessa e controversa tra le grandi questioni sollevate dal femminismo e alimentate dalle sue storie e le appropriazioni nelle prestazioni artistiche nel festival. Si può ben capire che la separazione della tematica dal soggetto impedisce la sua messa sul terreno della partecipazione e della lotta come dell’incidenza sulla politica. Tuttavia bisogna sapere vedere l’irruzione della vita nello spettacolo, il cui terreno, anche a Sanremo, è stato arato dell’invasione del tema dei diritti che emergono silenziosamente o fragorosamente nella società civile e che sono letti da chi scrive e canta una canzone, come chi scrive una poesia o un romanzo o chi fa un film.
Si vuol far vivere un’esperienza negata o promettente. Può aiutare a vivere questo nuovo mondo regressivo senza farsi soffocare. Ma non può valicare il muro del potere, non può farsi politica. Nella società dello spettacolo la politica svuotata della sua ragion d’essere puoi darsi allo spettacolo, lo spettacolo non può farsi politica. Il muro del potere, lo stesso, del resto, che rende la politica impotente e muta. Sono i muri che circondano la prigione costituita dal potere incontrastato dell’economia del mercato, delle compatibilità. Così, anche ai governanti, resta una possibilità per apparire, inventarsi un abito ideologico, sventolare una bandiera per attivare un consenso guerresco contro qualcuno. I materiali li ritrova, appena da risistemare, nella sua storia.
Da noi, come ovunque, da Trump a Orban, sceglie come avverso il diverso, il germe indicato come disgregatore dell’entità della nazione e chiamato a nascondere la sua avversione di fondo per qualsiasi pratica o pensiero critico. Così si sommano un elemento viscerale e il bisogno di un nemico, se non c’è l’opposizione politica si elegge, al suo posto, Sanremo. Il governo, la sua politica non è affatto minacciata dalle sue prestazioni. Le stesse sacrosante istanze sui diritti, così artisticamente espressi, camminano su una strada diversa, non confliggono col potere costituito. Tanto più in assenza di una battaglia delle idee, di una lotta per l’egemonia sul terreno culturale e politico. Non sono neppure le canzoni di protesta, non si canta “Contessa” e non si muovono una contestazione di massa, una lotta contro il potere.
Edoardo Bennato cantava, ironicamente, “sono solo canzonette”. Aveva ragione a voler dire che erano anche altro. Non però direttamente politica. Vero allora, figurarsi oggi che gli statuti di ognuno sono sconvolti dall’avvento di un nuovo ordine capitalistico, che vuole essere totalitario. Eppure emergono da ogni dove, dalla realtà alla finzione, alle esperienze, segni che inquietano chi comanda. Non ne avrebbero ragione per l’oggi, ma ci dicono che il domani resta aperto.
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