C’è un “caso Serbia”, nel cuore dei Balcani, che si sta dimostrando ben più intricato di quanto siano state le crisi passate esplose in quella zona d’Europa. Domenica scorsa, a Belgrado, si è tenuta una nuova manifestazione contro il presidente Aleksandar Vučić. La più grande nella storia del Paese. Erede politico di Slobodan Milošević, assiduo interlocutore di Mosca, accusato di corruzione e criminalità organizzata, il leader serbo viene indicato come il diretto responsabile del crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, a novembre scorso, che aveva provocato la morte di 14 persone. È a quell’episodio che bisogna risalire per comprendere le proteste odierne.

Una tragedia indice di malagestione degli appalti edilizi, da parte di un governo poco trasparente e legato alla criminalità organizzata. Ai fatti di Novi Sad erano seguite manifestazioni spontanee e con un’alta partecipazione di studenti e professori, autori dello slogan della protesta: “Pumpaj!” (Pump it!, Spingi!). Ma il caso più dirompente si è avuto in Parlamento, appena due settimane fa, dove i deputati dell’opposizione avevano scatenato una rissa e fatto esplodere dei fumogeni, causando dei feriti.

C’è chi vede nella crisi serba una nuova “rivoluzione colorata”, sulla scia di quelle in Ucraina e Georgia. Un processo di emancipazione dal controllo russo, compensato dall’avvicinamento all’Unione europea. In questi ultimi anni, il governo di Belgrado ha cercato di mantenere aperti tutti i canali diplomatici, per non scontentare nessuno dei suoi alleati storici, quanto dei suoi principali interlocutori commerciali. Questa diplomazia “à la carte” – così definita dallo European Council on Foreign Relations – ha lasciato insoddisfatti sia Mosca sia l’Europa. Il processo di integrazione della Serbia nell’Ue è iniziato nel 2009. Tuttavia, proprio l’alleanza con la Russia ha reso più difficile il percorso. Quando Ursula von der Leyen ha esortato Vučić ad allinearsi con i suoi futuri partner Ue in tema di trasparenza, Stato di diritto e libertà di stampa, si è sentita rispondere che l’adesione della Serbia all’Unione è improbabile che avvenga prima del 2028. Queste parole hanno infastidito Bruxelles ma anche Mosca.

Dallo scoppio della guerra in Ucraina, Putin sta lavorando per dimostrare come Ungheria, Slovacchia, ma anche Croazia e Romania – e potenzialmente anche la Serbia – vadano a costituire un giardino di casa del Cremlino, contro il quale nessuna istituzione di Bruxelles (Nato inclusa) si può opporre. Ma come può fidarsi Putin di un governo che non è riuscito a evitare le sanzioni degli Stati Uniti contro la compagnia energetica serba Nis, di cui Mosca detiene il 56%, tramite Gazprom e Gazprom Neft? Come può trovare un’amica in una Belgrado che ha scelto di sospendere parte dei suoi accordi militari con la Russia e quindi rivolgersi ad altri fornitori, come la Cina? Il Cremlino ha bisogno di fedelissimi. Vučić invece non si è dimostrato all’altezza. E non gli torna neanche favorevole la scelta, oggi, degli Usa di Trump di allentare le sanzioni su Nis. La stampa russa sta abbandonando Belgrado. Lo si è visto anche nella sua nuova posizione sul Kosovo. Mossa strumentale, in quanto il riconoscimento dell’indipendenza della regione balcanica potrebbe giustificare la rivendicazione russa sul Donbass e altre aree occupate dell’Ucraina.

Questa fluidità dei pesi potrebbe tornare a vantaggio di Bruxelles. Oltre che orfano di padre russo, Vučić è stato abbandonato dal primo ministro, Miloš Vučević, che si è dimesso a fine gennaio. L’opinione pubblica è senza un leader, al momento. Le proteste mancano quindi di un progetto alternativo. Il che rende la Serbia una potenziale “figlia di nessuno”, il cui disorientamento è un pericolo anche per i suoi vicini. Bosnia, Kosovo e Montenegro, anch’essi serpeggiati da movimenti di ultra-destra, legati alle mafie locali, rischiano di essere contagiati dall’instabilità di Belgrado. Mentre l’Ue è la conclusione naturale di un percorso di sviluppo economico significativo, compiuto dal Paese negli ultimi vent’anni. A questo, però, deve andare in parallelo l’affermazione dei valori liberali e democratici propri dell’Unione e che, appunto, la Serbia fatica ad accettare.