Nessuno, temendo la volatilità trumpiana, azzarda previsioni sulle conseguenze pratiche dell’incontro fra Meloni e il presidente americano (semmai, in Italia, com’era prevedibile, ci si divide fra ultras e gufi). E invece il duetto dello Studio Ovale ha portato alla luce con chiarezza il significato e le possibili vie d’uscita della crisi geopolitica esplosa con la nuova amministrazione Usa. Merito, in verità, della premier italiana. The Donald ha detto poco o niente, ha ripetuto le sue cose sebbene con modi garbati, si è limitato a concedere una visita in Italia. Mentre è stata Meloni a scoprire le carte, offrendo alla Casa Bianca una posizione, al tempo stesso, europeista e trumpiana. E cioè una difesa esplicita dello storico asse atlantico.

Una difesa dell’Occidente e del ruolo dell’Europa nell’Occidente. Non era così ovvio. Il ciclone Trump ha provocato reazioni molto forti. Ursula von der Leyen ha potuto dichiarare (e proprio alla vigilia del viaggio di Meloni) che “l’Occidente come lo conoscevamo non esiste più”. Perfino il compassato Mario Monti si è avventurato in giudizi estremi. “L’America non è più una democrazia liberale”, ha detto. E giorni fa, mettendo a confronto le due sponde dell’Atlantico, l’Economist concludeva enfaticamente come ormai soltanto il Vecchio Continente fosse terra di diritti, pensiero libero, regole di mercato, equità sociale. Una sorta di requiem per l’Occidente atlantico, insomma, che poi in Italia, e soprattutto a sinistra, utilizzando l’idolo polemico di Trump, finisce per mischiarsi con i soliti umori anticapitalisti (no al gas americano, sì alla guerra a Big Tech). Una sottolineatura della fine della solidarietà atlantica che, inusitatamente, diventa europeismo radicale (come la difesa comune dall’oggi al domani, chiesta a gran voce da Schlein e Fratoianni), ma che in realtà sconfina nella demagogia pacifista e nel rifiuto del riarmo.

Make the West great again

Make the West great again”, auspica invece Giorgia Meloni nello Studio Ovale. E cioè fa propria la geopolitica trumpiana e il ruolo che, al suo interno, la Casa Bianca assegna all’Europa. Accoglie la ruvida intimazione di Trump al Vecchio Continente a diventare grande, a fare la propria parte nella difesa dell’Occidente dai suoi avversari globali, ad accettare una divisione delle responsabilità strategiche. Il che significa spendere di più per l’autodifesa, definire risposte comuni alla concorrenza sleale della Cina, ripensare la stessa compatibilità della globalizzazione. E poi, naturalmente, condividere quel che la conservatrice Meloni già possiede nel suo discutibile patrimonio genetico: la risposta dura ai movimenti migratori, l’enfasi sui valori della “civiltà bianca”, la guerra alla cultura woke. Una sintonia, cioè, non improvvisata, che sarebbe superficiale ridurre alle reciproche moine di rito.

Equilibrio tra europeismo e trumpismo

Quel che la premier ha portato in dote a Trump è la difesa di un Occidente che alla sinistra italiana – ma anche ai Macron e agli Starmer – potrà apparire eccessivamente trumpiano, ideologicamente discutibile, perfino reazionario e che tuttavia costituisce, di fronte all’America sfibrata del Tycoon, di fronte all’America rabbiosa di JD Vance, l’ipotesi più plausibile. Meloni ne è sembrata convinta. E ha mostrato pragmatismo, realpolitik, consapevolezza delle criticità globali. Consapevolezza di quanto sia stretto il cammino per il suo Paese (tipicamente neutralista) e per la sua complicata Europa.

Non a caso, auspicando che la martoriata Ucraina abbia una “pace giusta”, ha subito aggiunto che si tratta di un obiettivo da costruire insieme a Washington. Con parole che possono suonare come conferma della solidarietà a Kiev o come una sottile forma di riposizionamento tattico. Si vedrà. Ma sempre all’interno di un’agenda che – al momento e per i prossimi anni – non può che reggersi sull’equilibrio fra europeismo e trumpismo. Ciò che oggi è, piaccia o meno, la sola strada per non lacerare in modo irreparabile l’Occidente.