Gli estremisti
La farsa delle elezioni in Iran: su sei candidati cinque figure del regime. Il boicottaggio rischia di essere il vero vincitore
Il popolo si ribella e chi riesce a non finire in carcere boicotta le elezioni, mentre i giornalisti invitano a disertare le urne
Mancano quarantotto ore alla tenuta di una delle messinscene elettorali più farsesche della storia dei 45 anni di vita della Repubblica islamica. A denunciarlo sono gli oppositori del regime e la popolazione iraniana dentro e fuori le carceri che lotta per liberare il proprio paese dall’oppressione dei mullah, come ha dichiarato il Premio Nobel per la Pace 2023, Narges Mohammadi che dal carcere di Evin fa appello al boicottaggio. Pesanti sono le restrizioni sui social media, numerosi sono gli arresti arbitrari di utenti e di giornalisti che in Rete invitano a disertare le urne. Criticano le elezioni farsa sotto pseudonimi per sfuggire alla repressione. Arrestato Vahid Ashtari, noto attivista dei social media, poco dopo aver postato documenti che descrivono il presidente dell’Assemblea consultiva islamica, candidato alle presidenziali, Mohammad-Bagher Ghalibaf, come uno degli uomini più corrotti del regime. Dietro le sbarre sono finiti anche i giornalisti Saba Azarpeik e Yashar Soltani, noti anche loro per le rivelazioni sulla corruzione di Ghalibaf.
La messa in scena
Dei sei candidati alle presidenziali, cinque sono figure di alto livello del regime; figure chiave dell’apparato della Repubblica islamica come l’intransigente Saeed Jalili, rappresentante di Ali Khamenei nel Consiglio supremo di Sicurezza nazionale e Mohammad Bagher Ghalibaf, ex sindaco di Tehran e attuale presidente dell’Assemblea consultiva. Su questi si concentrerà con ogni probabilità il voto dei conservatori essendo molto vicini all’apparato dei pasdaran e a quello clericale, gli altri quattro candidati sono stati ammessi solo per fare scena, per far vedere che c’è competitività, ecco perché il Consiglio dei guardiani ha permesso al cosiddetto moderato, Masoud Pezeshkian, di candidarsi. Non fatevi ingannare dai termini “moderato o “riformista” che il regime usa per descrivere alcuni esponenti della Repubblica islamica che si oppongono a chi è al potere. Chi conosce questo paese sa che di moderato o di riformista non esiste alcunché.
Estremisti, non riformisti
Proprio lunedì, durante un suo discorso televisivo l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, arruolato da Pezeshkian in questa campagna elettorale come suo consigliere di politica estera, ha attaccato duramente l’attivista per i diritti delle donne Mashi Alinejad che guida dagli Stati Uniti la lotta nonviolenta delle donne per la fine dell’apartheid di genere e del regime islamico, definendola una “traditrice” che le autorità iraniane fanno bene a condannare. Dunque, se i riformisti sono questi, sono proprio del tutto simili agli estremisti. Anche quelli che molti chiamano riformisti non mostrano alcun rispetto per i diritti delle donne e si mostrano simili ai talebani, anche se vestiti in giacca e cravatta. Pezeshkian, sessantanovenne, è un cardiochirurgo molto noto di etnia turco-azera, già ministro della Sanità durante Khatami. La sua candidatura è dunque semplicemente funzionale all’obiettivo di portare al voto la numerosa componente azera costituita da circa 20 milioni di iraniani nel tentativo di limitare l’astensionismo. Il regime tiene a mostrare al mondo che quello della Repubblica islamica è un sistema ampiamente legittimato dalla popolazione e che sono gli iraniani a scegliere liberamente il loro presidente, e non il leader supremo che sceglie il capo dello stato da lui più gradito. Pezeshkian, sta cercando di muovere un po’ le acque di una campagna elettorale eterodiretta dai pasdaran e dalla guida suprema, e per questo ha ingaggiato l’ex ministro degli Esteri Zarif come suo consigliere.
Interni al regime
Zarif è stato a capo della diplomazia sotto il presidente Hassan Rouhani (2013-2021) e nel 2015 fu l’architetto dell’accordo sul nucleare iraniano. L’economia del paese sembrava averne beneficiato nei tre anni successivi alla firma di quel piano, fino a quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si ritirò dall’accordo nel 2018 e impose sanzioni ancora più severe all’Iran. Pezeshkian crede che molti iraniani guardino con una certa nostalgia all’era Rouhani, quando l’economia sembrava riprendersi a seguito del Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) e quando Zarif aprì una porta verso l’Occidente. Senza alcun dubbio Zarif rimane molto popolare tra la corrente dei cosiddetti “riformisti”, ma, come ripetiamo, si tratta sempre di personaggi tutti interni al regime della Repubblica islamica che la popolazione iraniana, a stragrande maggioranza, considera una banda di criminali impegnati in una feroce faida per la conquista del potere e sostiene che il sistema è irriformabile e che va dunque abbattuto e per questo boicotterà le urne.
L’esito scontato
Ma la corsa sembra avere un esito scontato. Il gioco è truccato e i candidati più credibili restano Jalili, ex negoziatore nucleare e oppositore di un accordo con l’Occidente e Ghalibaf, ex influente generale del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica ed ex capo della polizia, è noto per la sua lunga esperienza militare e politica, molto esperti di repressione del dissenso essendosi formato nel corpo delle guardie rivoluzionarie e nelle forze paramilitari dei basij. I pasdaran vogliono un uomo del loro apparato alla guida suprema e alla presidenza del paese. Spingono affinché l’Iran dopo Khamenei si muova verso un’ideologia decisamente meno clericale e ancor meno islamista in molti modi, verso un’ideologia più militare, per la costituzione di uno stato fortemente autoritario.
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