La foto premiata dall’Università del Missouri interroga l’Occidente
La foto di Shani Louk, il premio e la didascalia da safari: quanto vale la verità della guerra senza la pietà

Le foto di guerra, sia come documenti dell’orrore che dell’epica (il miliziano spagnolo colpito in aria, attribuita a Frank Capra, i soldati di Iwo Jima che issano la bandiera, la bambina vietnamita che corre ustionata dal napalm e mille altre) sono parte della letteratura mondiale e, per quanto raccapriccianti, parte integrale dell’autobiografia dell’essere umano in guerra, passando anche per colonna Traiana e la Giuditta col coltello sanguinante di Caravaggio.
Ma c’è lo scatto di un episodio particolarmente infernale del massacro e degli stupri del 7 ottobre ed è uno scatto che ha vinto un premio prestigioso come un Oscar. Lo scatto mostra dei miliziani armati di Hamas che rientrano nella striscia di Gaza su un pick-up bianco portandosi sdraiata sul fondo del veicolo il corpo di donna dalle gambe spezzate e ancora viva, sulla cui testa sputa uno degli uomini armati. La foto, pubblicata subito su Instagram, è stata selezionata per concorso annuale del Reynolds Journalism Institute dell’Università del Missouri, Stati Uniti d’America, e ha vinto il prestigiosissimo premio che si chiama “Team Picture Story of the Year”. E che è andato al fotografo palestinese Ali Mahmoud dell’Associated Press, accusato dagli israeliani di essere stato preavvertito dell’attacco da Hamas di cui sarebbe un complice, cosa che il fotografo nega.
La foto di Shani Louk sul pick-up dei terroristi
C’è stata su Internet e suoi giornali una sollevazione mondiale perché l’immagine della foto mostra le carni nude e scomposte di una ragazza che fino a poche ore prima era viva e bellissima e che nel momento in cui la fotografia è stata scattata era deforme e irriconoscibile, ma viva. Il fatto che fosse viva e che l’immagine premiata ritraesse un gruppo di assassini che si esponevano all’obiettivo del signor Ali Mahmud mentre calpestavano le carne vive e nude della vittima che secondo i testimoni respirava nella più atroce agonia, è l’elemento che fa la differenza e che non permette di liquidare questa foto come un oggetto neutrale, per quanto crudele.
E questo perché mentre le foto venivano scattate, i carnefici infierivano su di lei viva come cacciatori che hanno issato a bordo un animale morente. Shani Louk, così si chiamava la ragazza tedesco-israeliana, agonizzava con una gamba spezzata che penzola dal pick-up mentre uno dei suoi assassini le sputa sulla testa che le verrà poi tagliata ed esposta pubblicamente.
La giustificazione dopo l’indignazione
L’immagine pone un problema etico non soltanto all’Istituto Reynold che organizza il premio “Foto dell’anno” ma alla nostra coscienza occidentale, se ce n’è ancora una. La cultura del nostro mondo minoritario circondato da sistemi indifferenti all’etica, è un mondo in cui la verità costituisce un valore, e la fotografia di guerra e di cronaca, la onora. L’istituto Reynold, infatti, si difende dall’indignazione generale ripetendo che “questo premio fotografico riconosce lo sforzo nel coprire un singolo evento: documentare le notizie – non importa quanto orribili – è il nostro lavoro. Senza AP e altre testate giornalistiche, il mondo non avrebbe saputo ciò che stava accadendo il 7 ottobre”.
La didascalia della foto che ha vinto il premio è questa: “Militanti palestinesi che tornano nella Striscia di Gaza con il corpo di Shani Louk, una cittadina tedesco-israeliana, durante il loro attacco trans-frontaliero contro Israele, sabato 7 ottobre 2023”.
La didascalia da safari
Non una sola parola sulla circostanza che Shani Louk fosse viva e che seguitasse a soffrire con i piedi dei suoi carnefici sul collo e sulle ferite. Che razza di fotografia sarebbe questa, e che cosa significa una didascalia che potrebbe andar bene per un safari? “Cacciatori che tornano al campo portando sul pick-up una gazzella morente”.
È su questo punto che entra in campo il valore simmetrico e non meno importante della verità che è la pietas, il valore attuale della vita umana. Il valore di una foto scattata da un uomo che avrebbe potuto e dovuto fare o dire qualcosa, essendo partecipe dello spegnimento violento di una vita umana, lo colloca nel ruolo del sospetto complice. E il premio che gli verrà poi assegnato diventa un’ingiuria imperdonabile per l’inaccettabile coesistenza del delitto e della sua vittoriosa immagine.
L’Istituzione Europea Jewish Congress ha protestato e moltissimi giornali, reti e siti hanno fatto lo stesso, per la violazione palese di valori che sono quelli della nostra civiltà e che non hanno mai consentito di privilegiare la tortura e la morte di un essere umano sulla fredda e implacabile legge dell’informazione: “Noi fotografiamo quel che accade, baby, e nessuno può giudicarci”: questa la sostanza delle parole di difesa dell’istituto americano.
Chi scrive è stato anche un giovane cronista costretto a farsi dare ad ogni costo la foto della vittima di un delitto per soddisfare le crudeli e austere regole del giornalismo. Ma questo episodio, il primo premio per la “Foto dell’Anno”, ad una immagine che ancora gronda sangue ed esprime sofferenza viva e inascoltata, va oltre il sistema di valori delle nostre società, perché dichiara pubblicamente di non voler riconoscere la linea di confine tra carnefice e vittima, fra la telecamera e gli assassini. Siamo lo specchio di una malattia profonda che riguarda l’Occidente. Questo premio dimostra che questa malattia ci riguarda.
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