È stato pubblicato in questi giorni il nuovo Indice Mo Ibrahim 2024 che fotografa il livello di democrazia e di buon governo nei 54 Stati africani, e ne stila una classifica.
Mohammed Ibrahim è un illuminato uomo d’affari anglo-sudanese di 78 anni; egli è presidente della Mo Ibrahim Foundation, che ogni anno sottopone al vaglio di un’approfondita analisi annuale, basata su 96 indicatori di riferimento, la salute dello Stato di diritto e dei valori democratici e costituzionali nel Continente africano. Il suo indice è uno dei più affidabili ed obiettivi strumenti di valutazione socio-politica in Africa. Come non era difficile immaginare, i principi democratici ed il buon governo, secondo l’Index, sono in notevole arretramento, tenendo presenti le principali categorie di indagine, che sono: sicurezza e Stato di diritto; partecipazione democratica, diritti ed inclusività; opportunità economiche; sviluppo umano. In almeno la metà degli Stati africani la democrazia ed il buon governo stavano meglio nel 2014 rispetto ad oggi.
In particolare, 11 paesi appaiono in caduta libera per valori democratici. Fra gli ultimi posti della classifica figurano il Sudan, dove è in corso da oltre un anno una terribile guerra civile, nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica globale; l’Eritrea, forse il paese più isolato e meno pluralista del Continente; e la Somalia, dove proseguono gli attentati terroristici di Al Shabaab ed il Governo centrale non riesce ancora ad affermare il suo controllo sul territorio statale. Chiude la poco gratificante graduatoria il Sud Sudan, al 54mo posto, che sconta la recente guerra civile, un diffuso malgoverno, e una situazione economico-sociale senza prospettive di breve-medio termine. Certamente non hanno giovato ad una lusinghiera valutazione complessiva del Continente le situazioni dei paesi che permangono sotto governi militari nati da colpi di Stato, come Mali (al 37mo posto); Guinea (al 42mo); Niger (al 30mo); Ciad (al 47mo). Mentre stupisce che l’Etiopia, paese martoriato prima dalla guerra civile con il Tigray, e adesso da un conflitto a bassa intensità nelle regioni Amhara ed Oromia, figuri nonostante tutto al 29 posto (però accompagnato da un avvertimento di crisi crescente).
Dopo aver passato rapidamente in rassegna i paesi più malandati, è il caso di soffermarsi sulle prime posizioni della classifica, che indicano quelli con le migliori performances di buon governo e di partecipazione civile e politica. È interessante notare come le prime tre piazze siano appannaggio di Stati piccoli ed insulari, come Seychelles, Mauritius e Capo Verde, seguiti nell’ ordine da Sudafrica, Botswana e Namibia. Si tratta di Paesi di cui sono note la stabilità, la crescita, il rispetto dei valori democratici, ed il principio di alternanza al potere. Fra le buone performances figurano anche Ghana (7mo), Senegal (11mo), Marocco, Tunisia (però in forte deterioramento), Kenya, Tanzania, Zambia e Costa d’ Avorio, tutti entro i primi 20.
Infine, i paesi che in generale hanno fatto riscontrare il miglior salto di qualità istituzionale nel decennio 2014-2023 sono Egitto, Madagascar, Malawi, Marocco, Costa d’ Avorio, Togo, Seychelles, Gambia, Sierra Leone, Angola, Mauritania e Gibuti, tutti caratterizzati da sistemi costituzionali ed adesione alla “rule of law” (sebbene con varie sfumature). Paradossalmente, i aesi che risultano i più fedeli ai valori di riferimento dell’Occidente e dell’Europa, e che non hanno agganci preoccupanti con la Russia, sono anche quelli a cui l’Ue e gli altri partners G7 dedicano minori attenzioni in termini di cooperazione e sostegni economico-finanziari; mentre i 27 europei concentrano gran parte delle loro tradizionali attenzioni ad aree di forte crisi democratica (e decrescita economica), come il Corno d’ Africa ed il Sahel.
I parametri dell’Indice Mo Ibrahim vanno ovviamente calibrati con altre considerazioni specifiche sui singoli paesi e sulle zone di appartenenza, ad esempio se siano esposti ad un forte debito esterno, o se patiscano senza responsabilità particolari le conseguenze di conflitti regionali limitrofi, o la presenza di flussi consistenti di rifugiati e sfollati al loro interno. Tuttavia, ad una attenta lettura, si può trarre l’amara conclusione di un’Africa spaccata: con una metà che cresce, si ammoderna ed include i suoi cittadini nei processi di sviluppo; ed una consistente parte del Continente che cede alle tentazioni dell’autoritarismo, permanendo vittima della povertà, di conflitti etnici, di guerre intestine e di diffuse sacche di malgoverno.
Per entrambe le categorie, lo stesso Mo Ibrahim, nella sua prefazione all’Indice, individua un aspetto comune particolarmente preoccupante: la frustrazione popolare degli abitanti del Continente, molto elevata anche quando i paesi mantengono valide credenziali democratiche e di buon governo; ma ancora più stridente quando siamo di fronte a situazioni di crisi politica, di guerra o di inefficienza prolungata. Il nodo del problema – afferma Ibrahim – consiste nel gap fra aspettative popolari, in crescita anche per l’influenza di internet e dei social networks, ed i pochi concreti progressi riscontrati dalla gente nella vita quotidiana. E questo contrasto fra sogni e realtà – conclude il magnate anglo-sudanese – è la migliore ricetta per la rabbia, i disordini sociali ed il conflitto.