Verso il voto
La giostra delle liste, che fatica la selezione della classe dirigente
La composizione delle liste elettorali è stata una giostra folle per tutti i partiti, chiamati a conciliare le aspettative di tutti, tra eletti uscenti e aspiranti candidati. Ne è emerso un film non proprio edificante che, salvo casi specifici, può approfondire il distacco tra i partiti e gli elettori, proprio in un momento in cui la tendenza all’astensione è in aumento.
La riduzione dei parlamentari, una legge elettorale di faticosa interpretazione e gestione, le procedure democratiche interne ormai inesistenti, la moltiplicazione di partiti personali e di liste d’occasione: tutti questi fattori indeboliscono sempre di più i partiti e li trasformano in fortini sempre più chiusi e spaventati delle conseguenze elettorali, ispirati da logiche di sopravvivenza di gruppi e correnti, con una difficoltà crescente di far maturare e selezionare una classe dirigente di qualità, degna di assumere poi incarichi di responsabilità. Sempre più forte è la tentazione di battere sentieri conosciuti e sicuri.
Riconfermando o promuovendo i propri fedelissimi, spesso stanchi ripetitori di luoghi comuni ascoltati in ambienti culturali sempre più asfittici. Oppure attingendo in modo maldestro e pasticciato alla cosiddetta società civile, con il rischio di imbarcare, insieme, personaggi di grande levatura professionale nel proprio specifico campo e soggetti del tutto improvvisati, accomunati tutti dalla inadeguatezza a gestire le dinamiche della politica parlamentare. Alla fine, la composizione delle liste permette così di valutare l’inefficacia della selezione del personale politico e i punti di debolezza specifici dei quattro principali schieramenti.
Esemplare il caso dei giovani candidati del Pd stigmatizzati e beffati dai loro stessi tweet, ispirati da posizioni filopalestinesi e antisioniste o inneggianti alla rivoluzione russa del 1917. Quei tweet infatti esprimono l’humus culturale e lo schematismo ideologico di fondo che la parte maggioritaria del Partito democratico, quella ancora ispirata ai valori postcomunisti, non riesce ad archiviare. Anzi, li perpetua, trasmettendoli alle sue nuove generazioni di dirigenti. Da una parte, c’è uno schema mentale tipico della sinistra arcaica: la distinzione, ormai angusta, tra oppressi e oppressori. Tra i primi ricadono i palestinesi e tra i secondi gli ebrei.
Con la conseguente negazione del diritto di Israele ad esistere e a difendersi. Senza comprendere che, così, si ridà fiato ai pregiudizi razziali più triti che nel novecento hanno costruito lo stereotipo negativo dell’ebreo ricco e capitalista, nemico del popolo e della nazione con le derive tragiche che ben conosciamo. Uno schema ideologico che è costato anche il fallimento del Labour guidato dall’antisemita Jeremy Corbyn. L’altro sottotesto fondamentale è quello evidenziato in questi giorni da Dror Eydar, l’ambasciatore di Israele in Italia (giunto a conclusione del suo mandato): Israele è l’avamposto del mondo occidentale nel Medio Oriente. Proprio qui scatta un altro tic ideologico della sinistra storica: la critica dell’Occidente, nutrita dal rifiuto del capitalismo economico e del libero mercato, rivolta prima di tutto contro l’America e, di riflesso, contro Israele.
A tutto ciò si aggiungono, poi, l’ammirazione e la nostalgia nei confronti della Rivoluzione d’ottobre che diede il via al primo – ma tragico e fallimentare – esempio di comunismo realizzato. Non è solo il tweet isolato di un giovane appassionato ma un po’ confuso. Basti ricordare che il manifesto politico della corrente Campo democratico di Goffredo Bettini – quella che ha vinto il congresso del 2019 del Pd con l’elezione di Nicola Zingaretti – si fonda proprio sulla esaltazione del “lampo del ’17” (cioè la rivoluzione russa) e sulla delusione per la “sconfitta” dell’89 (cioè il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Urss) che il resto del mondo occidentale salutò, viceversa, come un grande evento di liberazione dal totalitarismo novecentesco. Come può un grande partito come il Pd, che si candida a governare la settima potenza economica mondiale nelle sfide della modernità, affidarsi a una giovane classe dirigente ispirata a tale paccottiglia culturale?
Perfino peggio, sotto questo profilo, sta messo il partito di Giorgia Meloni. I quadri di Fratelli d’Italia sono notoriamente gli eredi della storia minore ma coriacea del postfascismo di fine 900. Sarebbe sciocco continuare a chiedere abiure di un passato lontanissimo e irripetibile, ma nelle scelte di consiglieri e candidati emerge plasticamente che la stessa Meloni sa di non potersi completamente affidare al suo partito. Un partito che – nonostante lo sdoganamento di Alleanza nazionale nel 1993-94 da parte di Berlusconi e la partecipazione ai diversi governi guidati dal Cavaliere fino al 2011 (nei quali Meloni è stata ministro) – non è mai riuscito a insediarsi nei gangli vitali del Deep State, il potere amministrativo reale (nei quali invece si è incistato con successo il Pd).
Ecco perché da tempo la leader sovranista, per godere di buoni consigli, si affida all’imprenditore ex Dc ed ex Fi Guido Crosetto, che è certamente un liberale illuminato. Le liste di Fratelli d’Italia rispecchiano questa debolezza. Per dare credibilità alle sue aspirazioni di premiership, Meloni ha dovuto rilanciare ex ministri di Forza Italia come Antonio Guidi e Giulio Tremonti, buoni per vantare capacità di governo. Ha recuperato il filosofo Marcello Pera e l’ex ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, in qualità di testimoni di liberalismo e atlantismo. Ha inserito nelle liste il magistrato Carlo Nordio e il prefetto Giuseppe Pecoraro, utili a tranquillizzare i poteri dello stato. Ma chissà se basterà.
Tutt’altra storia quella del M5s. Dopo aver fatto un giro completo di giostra di governo nella legislatura più folle della storia repubblicana, il movimento fondato da Beppe Grillo è tornato al socialpopulismo ecologista delle origini. In questa antica veste diventa necessario un gruppo dirigente molto più controllabile e coeso da affidare alla gestione di Giuseppe Conte. Via, dunque, gli eletti al secondo mandato e spazio ai fedelissimi dell’avvocato che hanno scalato le gerarchie di lista. Così, le parlamentarie farsesche sono servite solo a raccattare nuova e inesperta manovalanza parlamentare da mettere a disposizione di un leader intoccabile.
Infine, il Terzo Polo di Renzi e Calenda è ancora fortemente legato alla personalità dei leader e al gruppo ristretto di dirigenti che li ha seguiti. Le bocciature di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, e di Federico Pizzarotti, ex sindaco di Parma, sono la spia di quanto sia difficile – anche per le ‘nuove proposte’ – rispettare la promessa di allargare ai protagonisti delle esperienze amministrative locali quando c’è prima l’esigenza di salvaguardare le posizioni dei quadri nazionali, minacciate dal mix della legge elettorale e del taglio dei parlamentari.
E così, la stessa novità di Renew Europe in Italia, più che un totale inedito, resta, sul piano della classe dirigente, un segmento di gruppi dirigenti riformisti provenienti dal Pd (e, in parte minoritaria, da Forza Italia). Per tutti i protagonisti in corsa, insomma, resta aperta la questione della selezione della classe dirigente. Strettamente connessa all’eterno miraggio della riforma dei partiti: chissà se la prossima legislatura diventerà l’occasione giusta per farla.
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