Più che di “controstoria”, termine un pochino ambiguo e tronfio, questa di Paolo Guzzanti è una critica radicale al racconto tradizionale della storia di questo Paese, persino certe volte demolitoria di cose che tutti consideriamo acquisite. Guzzanti è un giornalista – un grande giornalista – non è uno storico. Pertanto la consapevole sua “partigianeria” va tenuta presente: questo è un libro politico il cui senso è nello schierarsi contro la verità ufficiale. Argomentare “al contrario”, confutare, obiettare, polemizzare. Senza limiti diplomatici e senza infingimenti, fin dal titolo: “La grande truffa” (Piemme editori): «Questo è un libro sulle grandi truffe nel campo della giustizia e quindi è un libro pessimista, anche se non do la colpa ai magistrati e ad alcuni di loro farebbe bene una cura dimagrante dell’ego. I magistrati discendono da un concorso pubblico molto difficile e poi intraprendono una carriera protettissima, non perché ci sia lo scopo di difendere loro, che maneggiano un servizio delicatissimo e fondamentale come la giustizia, ma per difendere i cittadini, anzi le singole persone, esseri umani di tutte le taglie, che hanno bisogno di giustizia. Ed è un servizio che non funziona, non ha mai funzionato, non è solo questione di personale e di spesa pubblica che è carente per definizione». Il “baco”, per Guzzanti, è lì: «Ancora si discute se la magistratura sia o non sia un potere. No, che non è un potere. Ma si comporta come se lo fosse perché intorno c’è il vuoto delle leggi che deriva dalla politica».
Se le cannonate al sistema giudiziario sono il cuore del libro, è tutta la vicenda italiana però ad essere marcia. Nel racconto ufficiale che se ne fa. Guzzanti in questa storia italiana c’è stato da protagonista, come tutti sanno. Repubblica, Stampa, Giornale, Rai, fino a questo Riformista di oggi, lui c’è sempre stato, col taccuino e la biro. Insomma, certe cose si può permettere di scriverle. Finanche su ciò che consideriamo inattaccabile, certi principi della Costituzione: «La Carta fondamentale è certamente antifascista ma non è liberale, perché non dichiara la libertà come il primo valore, o almeno fra i primi valori assoluti, e questa è una, non la sola, delle ragioni profonde per cui Montesquieu sarebbe inorridito. L’Italia non è mai stata la patria della giustizia protettrice della libertà degli innocenti e anzi in momenti diversi ha protetto e protegge associazioni politiche dei magistrati con tutte le conseguenze della ragion politica prevalente sulla difesa del singolo cittadino presunto innocente». Anche per questo in Italia, sostiene Guzzanti, esiste la tortura. L’inchiesta di Mani pulite ne fu esempio forte.
E allora se leggiamo la recente storia d’Italia con questa lente si arriva alla conclusione che il pool di Milano operò un colpo di Stato, che demolì prima Bettino Craxi e poco dopo diede un colpo durissimo a Silvio Berlusconi, che sono, in quanto vittime della malagiustizia meneghina, gli “eroi” guzzantiani, e le “vittime”, le note stonate del grande spartito mudicaje costruito sul patto tra Democrazia cristiana e Partito comunista (compresa la pratica corruttiva di entrambi): «Il filosovietismo italiano era molto forte e diffuso anche nella Democrazia Cristiana, nelle aree ostili alla presenza americana e anche alla cultura americana improntata al liberismo e all’individualismo. Quella parte dell’opinione pubblica, più larga, di quella del solo Partito comunista, costituiva e da allora ha sempre costituito quel “partito russo” che è emerso in molte occasioni: dall’ostilità alla commissione bicamerale d’inchiesta sugli elenchi degli agenti sovietici attivi in Italia rivelati dall’ex archivista del Kgb Vasilij Mitrokhin, fino a quella contro la politica di aiuti economici e militari all’Ucraina dopo l’invasione russa del febbraio 2022». L’immortale “A Frà, che serve?”, o la incauta affermazione proprio di “Fra”, cioè il potente braccio destro di Andreotti Franco Evangelisti detta proprio a Guzzanti – «ahò, qua avemo rubato tutti» – immortalano un tratto essenziale della Prima Repubblica nella quale certo c’era anche tanto altro.
Ma a Guzzanti questo “altro” non interessa, egli procede impietoso con la vicenda Moro, una truffa anche quella nel senso che il presidente della Dc, sostiene una testimonianza che Guzzanti fa propria, era già morto quando Francesco Cossiga si reca a via Caetani dove nella famosa Renault rossa c’è il cadavere dello statista con il sangue ancora fresco, segno che era stato ucciso proprio lì. Un mistero oggetto del lavoro della commissione Mitrokhin di cui Guzzanti, divenuto senatore di Forza Italia, fu il presidente di una commissione parlamentare il cui lavoro, lamenta il giornalista, verrà pressoché ignorato anche da parallele commissioni come quelle sul caso Moro: «Posso dire che è stata certamente un’operazione speciale di Kgb con Stasi e con la partecipazione dei migliori tiratori venezuelani o di altri Paesi, specialisti in interrogatori. Noi abbiamo fatto copie di queste carte su cui bisogna lavorare un po’ ma la cosa è certa: i brigatisti erano qui durante il rapimento di Moro e Carlos (terrorista ricercato in mezzo mondo-ndr) dirigeva tutto e poi si riuniva con gli uomini del Kgb e della Stasi». Nel racconto non c’è un tono particolarmente indignato, ma piuttosto rassegnato: e tuttavia Paolo Guzzanti prova ancora a proporre le sue verità, ed è tipico per uno non arrendevole come lui.