Il diritto di vincere per non essere distrutti
La guerra a Gaza non è mai cessata, Israele ha il dovere di prevenire un nuovo 7 ottobre

Sono soltanto due le questioni che ormai da mesi governano la scena della guerra di Gaza, che non era cessata con la pausa del fuoco delle ultime settimane e non è ricominciata con gli attacchi israeliani dell’altra sera. La prima questione riguarda gli ostaggi; la seconda riguarda il permanere di Hamas nella propria posizione di dominio sulla Striscia.
Le bozze di accordo della scorsa primavera offrivano soluzioni ambigue su entrambi i fronti. Non si sapeva pressoché nulla degli ostaggi, perché Hamas non dava informazioni su quanti e quali fossero ancora in vita. Ed era lasciato nel vago l’altro punto essenziale, vale a dire se Hamas avrebbe ancora esercitato, o no, il “potere de facto”, la cui persistenza rende impossibile distinguere Gaza da chi pretende di averne il governo. L’attuazione degli accordi successivi, cioè quelli che hanno portato al cessate il fuoco delle settimane scorse, scioglieva quelle ambiguità e rinfacciava l’urgenza di una realtà troppo a lungo trascurata. Hamas avrebbe continuato a fare quell’uso terroristico degli ostaggi, restituendone un po’ ischeletriti e un po’ a pezzi sulla scena di parate in mondovisione; e avrebbe dimostrato tramite quelle esibizioni trionfali di non avere nessuna intenzione di rinunciare alle proprie ambizioni aggressive.
Israele, prima di cominciare le operazioni dell’altra sera, segnalava che i miliziani di Hamas, riorganizzati nell’interludio, si sarebbero apprestati ad attaccare. Era ovviamente un espediente comunicazionale, nel senso che serviva a giustificare un’iniziativa di ripresa delle operazioni belliche che altrimenti sarebbe apparsa ingiustificata. Ma non c’era nessun dubbio sul fatto che Israele non avrebbe potuto tollerare neppure il remoto rischio che da Gaza potessero venire ancora pericoli per la propria sicurezza.
Dopo oltre un anno e mezzo di guerra, che ha inflitto notevoli ma non definitive perdite alle dirigenze terroristiche palestinesi, è possibile leggere con lenti meno offuscate la storia del grande errore commesso dai presunti alleati di Israele, a cominciare dagli stessi Stati Uniti. È stato riconosciuto a Israele – tutt’al più – il diritto di “difendersi”. Un diritto che presupponeva il dovere dello Stato ebraico di rimanere esposto agli attacchi altrui – da Gaza, dalla West Bank, dall’Iran, dal Libano, dalla Siria, dallo Yemen – e di non muoversi per prevenirli. Ma è il diritto di sperare di non essere distrutti. Non è il diritto di vincere per non essere distrutti. È il diritto di sperare che non accada più un 7 ottobre: non è il diritto di impedire che accada.
Nessuno saprebbe negare che la società palestinese governata da Hamas costituisca un pericolo attuale ed esistenziale per Israele. Ma lungo tutto il corso della crisi si è preferito accantonare la questione. Uno statuto speciale subordinava Israele a quel doppio dovere: sopportare che i propri cittadini deportati fossero numeri inanimati di un bilancio rimaneggiabile, e tollerare che a pochi passi dai propri villaggi si perpetuasse l’economia dei tunnel e dell’allevamento di generazioni indottrinate al martirio. Cose sopportabili e tollerabili per chi non le vive.
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