La polemica
La guerra dei Pm contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo

I vertici della magistratura italiana sono in larga parte fuori dalla Costituzione e dallo Stato di diritto, in guerra esplicita contro l’Alta Corte e le sue sentenze. Le recenti inaugurazioni dell’Anno giudiziario 2022 sono state veri campi di battaglia. Alla testa dello squadrone si è messo il procuratore generale della Corte di Cassazione, quel Giovanni Salvi ormai soprannominato “lo smemorato”, da quando non ricorda più dove ha messo il telefonino, o anche “il pentito”, dopo che ha capovolto la propria posizione sull’ergastolo ostativo per allinearsi a presenti e passati procuratori “antimafia”.
Quello dell’ergastolo ostativo, uno dei temi più ignorati dalla grande stampa, non è una faccenda tecnico-giuridica, pane e formaggio per barbosi giuristi o perditempo “garantisti pelosi”, come dicono i tagliagole, è semplicemente qualcosa che fa la differenza tra la vita e la morte. Tra la civiltà giuridica dei Paesi liberali e democratici e la barbarie degli Stati totalitari e vendicativi che mantengono la pena capitale. In quale contesto sta l’Italia, dal momento che le decisioni della Corte Costituzionale, oltre che quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo, vengono combattute proprio da chi dovrebbe applicarle? E lo stesso Parlamento viene minacciato se non obbedirà ai diktat dei pm “antimafia”? Se qualcuno domandasse al procuratore generale Salvi se è favorevole alla pena di morte, stiamo certi che risponderebbe sdegnato di no, come, crediamo, se qualcuno lo avesse accusato di essere a favore della schiavitù o della tortura. Infatti, pochi mesi fa, in quel mese di marzo 2021 in cui si era in attesa della decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, si era un po’ sbilanciato a dirsi contrario al “fine pena mai”.
Ma era in un ambiente rilassato, un dibattito culturale un po’ fuori contesto rispetto alla necessità di indossare elmetto e giubbotto antiproiettile per la “lotta” alla mafia, come se questa spettasse ai magistrati. L’inaugurazione dell’ anno giudiziario è altra cosa, e allora si deve mandare un messaggio brutale e dire che il “fine pena mai” e il “carcere duro” sono utili, perché servono a “impedire che i boss comandino dal carcere”. Lo squillo di tromba partito da un vertice così autorevole è indirizzato a due interlocutori altrettanto elevati: la magistratura e il Parlamento. Si deve decidere chi comanda. La Corte Costituzionale e il potere legislativo o quello illegittimo del Partito dei Pm? Bisogna spostarsi da Roma a Palermo per trovare la carta assorbente su cui depositare il messaggio. In terra di “trattativa” ritroviamo, tra gli orecchi musicali più sensibili allo squillo guerriero partito dal vertice della magistratura, un vecchio gruppo di toghe che pare uscito dalla fotografia ingiallita della “vicenda Scarantino”. La storia di quel falso pentito coltivato amorevolmente dagli inquirenti siciliani, dopo che era stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, fino a che era riuscito a mandare in galera una quindicina di innocenti accusando falsamente anche se stesso per l’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Un bell’esempio di “pentito”, cui non sappiamo si siano ispirati anche il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario i tre ex pm che di Scarantino si erano occupati, e che poi hanno fatto belle carriere.
Parliamo di Nino Di Matteo, Dino Petralia e Anna Maria Palma. Il primo, oggi membro del Csm, ritiene che, se si mette in discussione il fatto che per accedere ai benefici penitenziari si debba per forza essere delatori, “si fa il gioco della mafia”, “si attua il programma di Totò Riina”. Ecco sistemata l’ Alta Corte, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, dando al Parlamento un anno di tempo, che scadrà il prossimo maggio, per attuare le riforme necessarie ad adeguare le norme emergenziali varate nel 1992 agli articoli 3 e 27 della Costituzione. Di Matteo, pur facendo parte di un organismo di alta giustizia come il Csm, si ribella ai principi cardine della Legge delle leggi come ribaditi dall’Alta Corte. Preferisce usare il palcoscenico di Palermo per invitare la magistratura a proseguire la ricerca “dei mandanti delle stragi del 1992”. Come se la sconfitta nel processo “trattativa” non dovesse ancora bruciargli sulla guancia. Allineatissima la procuratrice generale facente funzioni Anna Maria Palma, che chiede in modo esplicito “non si abolisca l’ergastolo ostativo”. Dino Petralia ha invece dismesso l’abito del pm “antimafia”(persona diversa dall’omonimo Carmelo, che condusse le indagini sul falso pentito Scarantino con i colleghi Di Matteo e Palma), indossando a tutto tondo quello di capo del Dap, cioè di amministratore delle carceri. Vedere qualche prigione gli è servito, e forse anche la contaminazione con “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione di cui ha anche partecipato al congresso dello scorso dicembre. Vogliamo trattenere come vera perla la sua seguente affermazione: “La Costituzione parla di pena e non necessariamente di carcere”. Lasciamola lì, senza commentarla.
Torniamo invece all’aggressione violenta che alcuni vertici della magistratura hanno sferrato contro la Costituzione. Ci sono quelli del passato, la cui opinione è però sempre autorevole sui quotidiani (non solo sul Fatto), come Giancarlo Caselli, che fu ai vertici di Magistratura democratica, ma soprattutto procuratore capo di Palermo. Ed è questa seconda veste che gli è rimasta appiccicata addosso anche da pensionato. Un altro è Roberto Scarpinato, che ha lasciato la toga da poco, con una sorta di testamento il cui leitmotif risuona delle parole di Di Matteo sull’uso dei “pentiti”, il timore che con le riforme garantistiche e costituzionali diminuiscano i collaboratori di giustizia. Sempre con l’ossessione dei “mandanti occulti“ delle stragi, cioè di una sorta di trattativa continua tra la mafia e lo Stato. Neanche la sentenza della Corte d’appello di Palermo che ha bocciato questa tesi viene rispettata. La verità è che questo partito dei pm “antimafia” sta giocando una propria partita di potere anche all’interno della magistratura, con la sponda di alcuni partiti in Parlamento. Non è un caso che, non appena sentite le parole di Salvi e di Di Matteo alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario, gli esponenti del Movimento cinque stelle si siano svegliati con un sussulto, proponendo che la riforma del Parlamento disattenda subito la richiesta della Corte Costituzionale. In molti modi.
Prima di tutto azzerando le competenze dei giudici e tribunali di sorveglianza territoriali, gli unici che conoscono il percorso rieducativo di ogni detenuto, per accentrare le valutazioni a Roma. E poi scaricando sul singolo prigioniero l’onere di dimostrare di aver rescisso ogni legame con gli ambienti criminali e affidando al procuratore nazionale antimafia e al pm che aveva condotto le prime indagini il compito della decisione finale. Il che significa una cosa sola: inchiodare ogni detenuto alla fotografia di venti-trent’anni prima, al momento della commissione del reato. Quindi negarne ogni possibilità di cambiamento (del resto Caselli l’ha detto chiaro: dalla mafia non si esce mai!) e condannarlo a morte. Si, morte, morte sociale, stillata goccia a goccia, ogni giorno e ogni notte. Ma i magistrati non dovrebbero essere obbligati alla fedeltà costituzionale? E i membri del Parlamento?
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