L’Isis ha rivendicato la strage di Kerman. Il sedicente Stato islamico, orda nera che investì prima l’Iraq e la Siria per poi trasformarsi in un’ombra ancora capace di uccidere e di resistere in alcune sacche nel mondo, ha dato il suo annuncio il giorno dopo l’attacco, con l’Iran ancora sotto choc. Il comunicato rilanciato dai canali della sigla jihadista spiega che l’attentato è stato condotto da due terroristi suicidi, Omar Al-Muwahid e Saifullah Al-Mujahid, che “si sono avviati verso un grande raduno di sciiti politeisti vicino alla tomba del loro leader morto, Qassem Soleimani, dove hanno fatto esplodere le loro cinture esplosive in mezzo alla folla, provocando l’uccisione e il ferimento di oltre 300 sciiti”. La rivendicazione indica che per lo Stato islamico la sua “guerra santa” non solo non è terminata, ma ha anche più obiettivi e più fronti. Lo spiega il messaggio del portavoce dell’organizzazione, Abu Huthaifa al-Ansari, che ha anche chiesto una mobilitazione di tutti i combattenti “per vendicare ovunque, in terra e sotto al cielo, i musulmani”. Un reclutamento che serve a combattere “una guerra santa non per il territorio o per la patria” ma “contro gli ebrei, alleati con i crociati” e in cui si chiede di spezzare l’alleanza tra le milizie palestinesi sunnite e l’Iran sciita.

Il risveglio dell’Isis in Medio Oriente non è una novità delle ultime ore. Da tempo, infatti, le milizie di Daesh hanno iniziato a riprendere vigore, soprattutto con attacchi all’esercito siriano. Pochi giorni fa, l’agenzia turca Anadolu ha rivelato che l’intelligence di Ankara aveva arrestato ad Aleppo il leader dell’Isis, Abdullah al Jundi, il quale avrebbe svelato i piani per colpire proprio le forze turche. Ma la rivendicazione della strage di Kerman in Siria certifica anche il rischio sempre più concreto che l’intero Medio Oriente venga avvolto dalle fiamme della guerra. Un conflitto in cui la Striscia di Gaza è l’epicentro, o il fronte più simbolico, ma da cui poi si propagano scosse che vanno a innescare altre milizie e incendiare altri campi di battaglia. L’Iran (con la sua costellazione di forze sciite in tutto la regione) è in questo senso la cartina di tornasole del rischio che il fuoco si propaghi in una escalation senza controllo.

Dall’inizio della guerra tra Hamas e Israele, Teheran ha attivato i suoi “proxy” per colpire non solo lo Stato ebraico ma anche l’intero sistema strategico occidentale nella regione. Gli Ayatollah hanno sostenuto pienamente la lotta di Hamas, benedicendo la guerra iniziata con l’orrore del 7 ottobre. Poi, con l’inizio dell’operazione militare israeliana a Gaza, la Repubblica islamica ha cominciato ad attivare le milizie regionali. In Iraq, le forze sciite hanno attaccato in particolare le basi statunitensi al confine con la Siria. In Siria, non sono mancati attacchi verso il Golan israeliano. Dallo Yemen, gli Houthi hanno assunto un ruolo di primo piano nello scacchiere regionale colpendo ripetutamente le navi portacontainer dirette verso il Mar Rosso e in particolare verso il porto di Eilat, mettendo a repentaglio il commercio marittimo e provocando la reazione Usa con l’annuncio dell’operazione internazionale Prosperity Guardian. Infine, a nord di Israele è iniziata da subito una guerra a bassa intensità tra le Israel defense forces ed Hezbollah, che ha già confermato la morte di più di un centinaio di suoi combattenti.

Le risposte alle mosse dell’Iran nella regione non potevano che essere su scala altrettanto regionale. E in questo senso, gli ultimi giorni hanno anche dimostrato le difficoltà di Teheran di mantenere il controllo del proprio mosaico di milizie al pari della sicurezza interna del regime. Israele ha colpito in Siria, rivendicando in modo anche abbastanza sorprendente un raid nel Paese come risposta agli ultimi lanci di razzi verso il Golan. L’esplosione di Beirut in cui è stato ucciso il numero due dell’ufficio politico di Hamas, Saleh el Arouri, ha poi mostrato sia i buchi della rete di sicurezza di Hezbollah sia inflitto un duro colpo nei confronti dell’organizzazione che controlla Gaza e ormai parte degli alleati iraniani, seppure non di matrice sciita. Mentre la strage di Kerman, con la rivendicazione dell’Isis a segnare un ulteriore inquietante tassello del fragile ginepraio mediorientale, ha fatto capire anche le fragilità interne degli apparati del regime teocratico iraniano.

Così, mentre a Gaza infuria la guerra tra Israele e Hamas (ieri è stato ucciso un alto esponente del Jihad islamico palestinese), sembra ormai sempre più concreto il pericolo di una escalation incontrollata. Una preoccupazione che agita in particolare il presidente Usa Joe Biden, che ha inviato proprio in Medio Oriente il suo segretario di Stato, Anthony Blinken. Una nuova missione che ha lo scopo di ribadire l’attenzione di Washington per la regione, ma anche per sottolineare le linee rosse della Casa Bianca sulla Striscia di Gaza e su tutti gli altri fronti di questo immenso conflitto.