“C’è qualcosa che non va nella sinistra di oggi, o quantomeno in ampi settori di essa”, ha scritto il mese scorso il filosofo americano Michael Walzer sul settimanale francese Le Point. Sono quei settori che difendono Hamas e Hezbollah in nome della “resistenza” contro il colonialismo sionista. Una posizione senza nessun pensiero per gli israeliani assassinati il 7 ottobre e senza alcun vero interesse per la popolazione di Gaza.

In realtà, non sono interessati ai palestinesi che vivono da anni sotto il giogo di Yahya Sinwar o alle donne che saranno ancora ancor più soggette alla disciplina islamista se dovesse raggiungere il suo obiettivo dichiarato, cioè l’annientamento di Israele. E non parlano mai della vasta rete di tunnel che Hamas ha costruito sotto Gaza, che permette ai suoi combattenti di rifugiarsi durante i bombardamenti di Tsahal, a differenza dei civili cui è vietato entrare. Lo abbiamo visto anche in Italia, dove all’ordine del giorno delle manifestazioni c’erano la libertà di espressione (ma non per le comunità ebraiche), il boicottaggio delle aziende che fanno affari in Israele e la fine di ogni cooperazione accademica con le università israeliane.

Niente di nuovo sotto il sole

L’obiettivo? Che Israele diventi uno stato paria, isolato e solo. Così da noi abbiamo un’altra guerra, che assume la forma di una persecuzione e di un ostracismo di bassa lega piuttosto che (per il momento) di violenza organizzata, ma che si fonda sulla lunga storia dell’antisemitismo di sinistra che sembra avere infettato diversi partiti del campo (sempre meno) largo. Niente di nuovo sotto il sole. Ogni volta che la Terra Santa è teatro di un bagno di sangue, in taluni ambienti accademici e del “socialismo degli imbecilli” (copyright di August Bebel,1893) scatta puntualmente l’ignobile equivalenza tra il genocidio nazista degli ebrei e la repressione israeliana dei palestinesi. Si tratta di una smaccata distorsione della verità storica, che non sempre viene contrastata con la necessaria decisione.

Il pregiudizio antigiudaico

Del resto, il pregiudizio antigiudaico affonda le sue radici in una millenaria tradizione. È così accaduto che indignati professionisti del pacifismo in qualche talk show televisivo, e tetri vignettisti dalla matita facile su qualche giornale, abbiano potuto gettare impunemente l’allarme sul disegno antico dei banchieri dal naso adunco di controllare il mondo, attingendo al vecchio paradigma vittimistico dei falsificatori dei “Protocolli di Sion”. Ma se ciò può essere considerato come un avvilente caso di miseria politica e culturale domestica, assai più inquietante è un fenomeno che rischia di prosperare anche a ovest di Allah. Mi riferisco a quel negazionismo secondo cui gli ebrei, le “false vittime” di ieri di un genocidio “inesistente”, sono i veri persecutori di oggi.

Per i suoi teorici lo stato d’Israele è un’impostura, l’abusivo destinatario di una solidarietà deviata. La sua nascita e la sua esistenza si avvalgono quindi di un’indebita patente di legittimità morale, sono soltanto il frutto della cattiva coscienza dell’Occidente. In questo delirio della ragione la Shoah diventa un “mito”, il sionismo l’avatar del complotto giudaico, il governo di Tel Aviv la sua intelligenza e il suo avamposto militare. È sufficiente dare un’occhiata ai social e alle piazze di questi giorni per farsi un’idea del largo consenso di cui godono queste tesi aberranti. Il pericolo di un revival dell’antisemitismo in Europa resta dunque assai serio. Ma il continente che ha visto sterminare “i più europei e meno nazionalisti dei suoi cittadini” (Amos Oz) non può pensare di riconciliarsi con il proprio passato e di progettare il proprio futuro come comunità di destino abbassando la guardia contro gli “assassini della memoria” (Pierre Vidal-Naquet).