Le carceri sono sempre più il luogo dove poniamo i nostri problemi: risolvere la struttura significa salvare i detenuti. Il fine (della pena e del carcere) dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Questo scriveva Cesare Beccaria tra il 1763 e il 1764 nel trattato sulla giustizia “Dei Delitti e delle pene”. Oggi, a più di 250 anni di distanza di quello che è il manifesto illuminista su una giustizia basata sul senso di umanità della pena e sulla capacità riabilitativa del condannato, in Italia la situazione è più che mai lontana dalla via ipotizzata dal giurista milanese.

Secondo lo studio proposto da Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio delle misure alternative preso la Direzione generale dell’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia del 2007, su 10 condannati che scontano la pena in carcere 7 torneranno a commettere un nuovo reato. Un sistema così non può definirsi efficiente. Ma cosa porta le nostre galere ad avere una recidiva così alta? L’associazione Antigone, nel suo rapporto XIX riguardo l’annata solare del 2023 sulle condizioni di detenzione italiane, ci aiuta a comprendere le cause del malfunzionamento delle nostre carceri. A fronte di una capienza ufficiale di 51249 posti, i presenti nelle nostre carceri sono 56674 circa. Questo vuol dire un sovraffollamento del 110% medio, con picchi sopra il 125% in Lombardia, Puglia, Friuli Venezia Giulia e Liguria. La popolazione detenuta nelle nostre carceri è composta per il 31% da stranieri, per il 70% da disoccupati e il 30% da over 50enni. I reati che principalmente riempiono le nostre strutture detentive sono quelli nei confronti del patrimonio, 30 mila circa, della persona, 23 mila, e del TU (testo unico in materia di sostanze stupefacenti), 19 mila.

Perché abbiamo questi numeri? Perché abbiamo uno dei più importanti sovraffollamenti carcerari in Europa fa sì che 7 detenuti su 10 sono reintrodotti nella società non come “cittadini nuovi” ma come soggetti ancora più poveri, senza competenze scolastiche-lavorative e quindi più incline a tornare nella illegalità? Gherardo Colombo, ex magistrato protagonista delle inchieste sulla loggia P2 e sul caso Mani Pulite, giurista, saggista e scrittore italiano, nel suo libro “Sulle Regole” (edito per Feltrinelli) ci dice come il rispetto della dignità dell’essere umano impone che una misura tanto limitante quanto la privazione della libertà personale sia ammissibile esclusivamente quando siano messi a repentaglio diritti fondamentali di maggiore o pari rilievo. Secondo questa impostazione, il rispetto della dignità esclude che siano consentite sofferenze fine a se stesse, o determinate da istanze riduttive. La durata delle limitazioni della libertà deve essere proporzionata alla necessità di recupero piuttosto che alla gravità della violazione, e la neutralizzazione non può comportare la limitazione dei diritti personali che non confliggono con le esigenze di tutela della collettività.

Il sistema carcere italiano è stato più volte nel corso degli anni e dei decenni di casi non isolati che dimostrano come sia un organismo malato, tendente ad opprimere l’individuo e a non rispettare quanto dettato dalla Costituzione sulla finalità della pena ovvero la rieducazione del condannato nella società e la riabilitazione dello stesso: Santa Maria Capua Vetere nel 2020, una mattanza che tuttora è sotto processo; Monza nel 2021, un abuso di violenza nei confronti di un detenuto documentato da immagini video della stessa struttura; Stefano Cucchi nel 2009, ucciso mentre era in custodia cautelare. Per migliorare l’organizzazione della nostra ossatura detentiva la politica deve impegnarsi su vari fronti, che sono già esistenti nel nostro sistema normativo o che devono essere migliorati. Rispetto ai sistemi già vigenti, il Parlamento potrebbe estendere i casi di pena che finiscono nella semidetenzione, già stabilita in Italia dalla legge 689/1981. Secondo Antigone la legge n. 689 del 1981 è stata negli anni applicata decisamente poco, sicuramente anche per il fatto che il limite dei due anni coincide con quello della sospensione condizionale. Dobbiamo a questo limitatissimo impiego l’esigenza sentita dal legislatore di ritornare sull’argomento all’interno della cosiddetta ‘riforma Cartabia’, che ha introdotto nuove sanzioni sostitutive e ha allargato le possibilità del loro utilizzo.

Al di fuori del nostro paese un altro mezzo particolarmente usato negli altri ordinamenti è l’uso della pena a casa; basti pensare al fenomeno delle house probation che in Italia sarebbe possibile applicare se si fosse attuata la legge 67/2014. La legge in questione qualificava come sanzione principale la fase detentiva a casa per quei casi di pena non superiori ai tre anni e, se voluto dal giudice, anche per pene superiori a 5 anni. Se si vuole credere ad una giustizia garantista, che mette al centro il condannato e non la condanna, ulteriori misure da aggiungere e che il Parlamento avrebbe la possibilità di legiferare: prima fra tutte eliminare la l’ipotesi di andare in carcere prima del giudizio in primo grado. Attualmente un terzo dei detenuti e detenute è in carcere in attesa di giudizio nonostante la Commissione ministeriale presieduta da Francesco Carlo Palazzo, sotto i ministri della giustizia Cancellieri-Orlando, avesse modellato l’uso di “dimore sociali”: luoghi in cui poter eseguire la misura cautelare personale o la detenzione domiciliare nei confronti di chi un domicilio non ce l’ha. Voltaire già nel 1700 esprimeva un concetto chiave di quelle società che si definiscono liberali, democratiche e garantiste: Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione. Dati, storie, fatti e leggi alla mano, la nostra nazione ha un problema che andrebbe risolto, cercando di non identificare chi va in carcere come il problema ma tutto il sistema nel suo insieme.

Jonathan Piccinella

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