Guerra in Libano, guerra “all out”, totale, a tutto campo e non “solo” con raid aerei e lanci di razzi. Riguarda tutti: non è una questione di vicinanza ideale con Israele (o con il cosiddetto “fronte della Resistenza antisionista” che va dall’Iran ad Hezbollah sciita ad Hamas sunnita). Riguarda tutti perché non sarà una guerra limitata ad un’area definita e a due contendenti.

Gli Stati Uniti hanno promesso appoggio a Israele pur ripetendo di essere in disaccordo sull’attacco dello Stato Ebraico che vuole porre fine al lancio di missili dal Libano, che ha portato a lasciare le proprie case settantamila abitanti dell’Alta Galilea con disastrose conseguenze umane ed economiche. Di contro l’Iran sostiene la milizia del Partito di Dio (questo vuol dire in arabo Hezbollah) che è diventata un vero e proprio esercito. Altri potrebbero entrare nei giochi di guerra, come la Russia che ha già sue forze armate e basi nell’area, nella vicina Siria. Stiamo parlando, per essere chiari, di potenze che dispongono – o nei fatti ambiscono a disporre – di armi atomiche. Ho visto cosa accade nel Nord di Israele, bersagliato ogni giorno da Hezbollah. Una media di otto razzi al giorno, a volte fino a duecento lanciati sempre più a Sud, fino a Tiberiade e nella zona costiera. Ho visto i villaggi libanesi colpiti dai raid mirati di Israele contro leader militari del Partito di Dio, che cercano rifugio ai droni killer riparandosi nelle case civili. Che esplodono con i loro abitanti.

In mezzo l’ONU: l’Unifil dispone di diecimila soldati, oltre mille italiani. Impotenti. Dovrebbero monitorare le violazioni della tregua, segnalarle all’esercito regolare libanese, e prestare assistenza alla popolazione con progetti di cooperazione realizzati dal genio militare. Le violazioni della tregua sono decine al giorno, l’esercito libanese non esiste, la cooperazione interrotta. È un fatto: la vera forza armata operativa nel Sud del Libano è Hezbollah. Che dice di non volere la guerra ma di limitarsi (per ora) a mantenere impegnato Israele sostenendo così indirettamente Hamas a Gaza. Hezbollah è l’unica milizia libanese a non aver rispettato gli accordi internazionali dopo la guerra civile e a non aver consegnato le armi pesanti.

Ho visitato la mostra arsenale allestita dalla milizia nella valle della Bekaa, proprio sopra Baalbek, dove il Partito di Dio è nato nel 1982. Tank, cannoni a lunga gittata, razzi, missili teleguidati, mitragliatrici antiaeree, lanciarazzi multipli in grado di generare una potenza di fuoco che Iron Dome (il sistema antimissile israeliano) non può contenere totalmente. Armi – mi hanno detto – che sono in buona parte i residui delle guerre precedenti, sottratti al “nemico sionista”, fabbricate nell’ex Unione Sovietica, nell’Est Europa, negli USA. Ripristinate e rimesse in grado di combattere, in bella mostra per dare forza alla propaganda di guerra ma soprattutto perché – dicono – altre armi, molto più potenti, le hanno sostituite.

La guerra sul campo, promette Hezbollah, sarà un massacro, molto peggio del 2006, molto peggio di Gaza. Il Libano non è minimamente in grado di controllare la potenza militare della milizia, che secondo gli accordi avrebbe dovuto ritirarsi dopo la guerra del 2006 a Nord del fiume Litani. “È più probabile che il Litani si sposti a Sud che Hezbollah a Nord”, commenta Nabih Berri, presidente del Parlamento Libanese, capo del partito Amal, sciita e filosiriano. Berri è, con il premier ad interim, il sunnita Miqati, una delle due autorità istituzionali rimaste in Libano.

Dopo le ultime elezioni il Parlamento non è riuscito a nominare un presidente, che deve essere cristiano, secondo il Patto Nazionale che regge il Libano da oltre settanta anni regolando gli equilibri tra le 18 confessioni religiose che convivono nel paese. I cristiani sono divisi in quattro schieramenti di volta in volta diversamente alleati o rivali. Un tempo orgogliosamente francofoni e filoccidentali i cristiani, non riescono a trovare un accordo tra loro e nemmeno a dialogare con musulmani e drusi se non per cercare provvisori appoggi e combattersi a vicenda.

La paralisi rende il Libano incapace di darsi un governo che avvii le riforme strutturali per avere aiuti internazionali; la Lira, la moneta locale, praticamente è carta straccia; l’80% della popolazione al di sotto della soglia di povertà. Chi ha conti in banca può ritirare il denaro per poche centinaia di dollari al mese, quando le banche sono aperte. Il denaro liquido e gli aiuti arrivano dalle rimesse dei libanesi all’estero o dalle organizzazioni umanitarie. Hezbollah si è sostituito in molte zone allo Stato, fornendo welfare e assistenza sanitaria. E facendo proseliti per la sua causa. Dicono disponga di trecentomila combattenti.

A Sud la guerra, a Beirut il caos: la città reca ancora i segni della esplosione dei silos del porto che tre anni fa ha distrutto un terzo della capitale. L’inchiesta per individuare i responsabili, che avrebbero stipato nei silos materiale esplosivo, si è arenata da tempo. Il giudice che stava incriminando funzionari del porto vicini ad Amal è stato rimosso. Nessuno ne parla più. Quel che resta del porto e delle torri sbrecciate dei depositi rimaste in piedi sono un monumento al paese devastato. Dove su una popolazione di quattro milioni e mezzo di abitanti ci sono più di due milioni di profughi, migranti e rifugiati: siriani, palestinesi che vivono nei campi da cinque generazioni, iracheni, iraniani.

Il Libano è stato nei secoli il rifugio delle comunità perseguitate del Medio Oriente, esempio di convivenza. “Messaggio per le nazioni”, lo definì Giovanni Paolo II. Ora il segretario di Stato Parolin è venuto per esortare i libanesi a trovare la forza di “vivere insieme”. Ma gli sciiti hanno disertato l’incontro con l’inviato del Papa in polemica con il patriarca maronita Rai, che aveva parlato del rischio che il Libano “diventi la rampa di lancio del terrorismo che destabilizza l’intera regione”. Il patriarca ha dovuto precisare che non si riferiva ad Hezbollah ma a forze “estranee” al paese, non è chiaro a quali. Mentre il risuonare delle sirene di allarme ricorda ogni giorno che un altro passo, per quanto “proporzionale” e “limitato”, è stato compiuto verso la guerra che nessuno vuole e alla quale tutti si stanno preparando.

Giancarlo Giojelli

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