L'esempio della legge Reale
La legge sui rave party è da stato di polizia, ecco perché
C’è sempre una legge speciale dietro l’angolo, un’emergenza che impone di essere affrontata con mezzi che esorbitano dall’ordinario e che spesso diventano invece ordinari e spuntati con l’emergenza di turno non se ne vanno più. Qualche volta l’emergenza, a prescindere dai metodi eccezionali adoperati per fronteggiarla, è almeno reale. Altre volte, come nel caso del decreto criminalità di D’Alema e Amato o come la crociata anti-rave dichiarata da Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi, non c’è neppure quella foglia di fico.
Tra tutte le leggi speciali che costellano la storia repubblicana nessuna è più celebre e nessuna ha acquisito un valore simbolico maggiore della legge-Reale, dal nome del ministro della Giustizia nel governo di allora, guidato da Moro, il repubblicano Oronzo Reale. Fu varata nel 1975, il titolo recitava “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”, il senso del provvedimento lo illustrava però un articolo del Corriere della Sera che per sostenere la nuova norma toccava picchi di eloquenza insuperati: “La situazione è di emergenza e come tale non può essere affrontata che con provvedimenti di emergenza. La rinunzia che quindi siamo costretti a fare ad una fetta della nostra indipendenza, la sottoposizione di ognuno ad un aggravio di controlli, il ridare vita ad istituti caratteristici del regime di polizia è il duro prezzo che bisogna pagare per ripristinare l’ordine, per liberarsi dalla paura dei fuorilegge, dai vandalismi degli esaltati, dal terrorismo dei fanatici”.
Quella del Corriere era precisamente la posizione del governo, che giustificava con gli stessi argomenti la drastica scelta. Ma era davvero così? La situazione era tanto grave da giustificare, se non la legge, almeno la denuncia dell’emergenza? La risposta non può essere netta come in altri casi. La violenza politica e legata alla criminalità erano reali e, se paragonate alla condizione attuale, di certo emergenziali. Nel contesto dell’epoca il quadro è molto più sfumato: quanto a manifestazioni violente le cose erano andate peggio nel lustro precedente, quanto a violenza politica armata e a episodi di criminalità sarebbero andate molto peggio dopo la promulgazione della legge. Il meno che se ne possa dire è che costò solo la vita a decine di innocenti senza produrre alcun beneficio. Il dubbio che abbia contribuito a esacerbare animi, innalzare la tensione e favorire la scelta armata è però quanto meno lecito.
In parte la legge deve la sua celebrità a una sorta di valore simbolico. Si configurò subito come spartiacque ma in realtà il processo emergenziale era iniziato, con meno fragore già da un pezzo. Un anno prima, nell’aprile 1974, i termini della carcerazione preventiva erano stati allungati sino a 8 anni: una condanna severa scontata in attesa di sentenza. Nell’ottobre dello stesso anno era stato reintrodotto l’interrogatorio di polizia, cancellato nel dicembre 1969 dopo e in conseguenza dell’autunno caldo. La polizia giudiziaria poteva di nuovo interrogare i sospetti, mantenendo come unica formula di garanzia la presenza del loro legale. La legge Reale fu però il salto di qualità. L’articolo centrale e con le conseguenze più sanguinose era il 14. Autorizzava gli agenti a sparare per impedire una quantità di reati che andavano dalla strage al sequestro di persona. Nei casi di conclamato abuso, però, era introdotta una novità che era quasi garanzia d’impunità. Le indagini non venivano più affidate al giudice competente ma al Procuratore generale presso la Corte d’Appello, a cui spettava la decisione tra procedere personalmente o passare la pratica alla Procura.
Sulla base di queste norme, nei 15 anni successivi, 254 persone furono uccise e 371 ferite. Il 90% dei colpiti era disarmato. In 208 casi si potè concludere con certezza che le vittime non stavano commettendo né stavano per commettere alcun reato. I posti di blocco diventarono un trappola fatale che scattò in 153 casi, spesso con la successiva giustificazione del “colpo partito accidentalmente”. La legge consentiva inoltre la perquisizione personale senza autorizzazione del magistrato per chiunque si trovasse in un luogo o mantenesse un atteggiamento che “non apparissero giustificabili”. Dunque a discrezione della polizia. Era anche introdotto l’arresto per il possesso di armi improprie e il divieto di coprirsi il volto nelle manifestazioni. Tre anni dopo un inasprimento della legge avrebbe esteso il divieto di rendersi “difficilmente riconoscibili” , anche al di fuori delle manifestazioni .
La sinistra tutta, dal Pci ai gruppi extraparlamentari protestò contro una legge che violava le regole costituzionali in numerosi punti e i cui sanguinosi esiti erano facilmente prevedibili. Berlinguer la definì “una tentazione condannevole, un errore grave da cui ancora una volta vogliamo mettere in guardia”. Il capo dei deputati Natta denunciò le “disposizioni pericolose e al limite della Costituzionalità”. Ma quando nel 1978 i radicali raccolsero le firme per il referendum abrogativo il Pci aveva cambiato idea e in realtà era già passato dall’altra parte della barricata l’anno prima, quando aveva approvato un ulteriore irrigidimento della legge operato da un governo che si reggeva proprio sull’astensione comunista.
L’alibi fu un passaggio secondario della legge che ripristinava il confino per i tentativi di ricostituire il partito fascista. Era la stessa tecnica usata negli anni ‘50 da Scelba, che aveva usato la legge oggi spesso e scioccamente osannata contro il fascismo per coprirsi a sinistra mentre reprimeva con le armi le proteste operaie. Nessuno in realtà aveva dubbi sul fatto che la legge Reale mirasse a colpire il movimento di protesta che dilagava da 7 anni nel Paese. Il Pci fece finta di crederci. Convocò una grande assemblea al Palalido di Milano e spiegò che schierarsi con l’abrogazione avrebbe significato “fare un favore ai fascisti e servire la loro causa. Non bisogna dimenticare che la legge contiene precisi capitoli e passi che riguardano la lotta al rigurgito fascista, e questo lo sa chi lo combatte”. L’abolizione fu sconfitta con il 76,5% degli elettori a favore della legge.
© Riproduzione riservata