La legittimazione a due velocità: Pci integrato, destra demonizzata

Una persona della mia generazione ha potuto usufruire di un rapporto di volta in volta “politicamente corretto” con le diverse stagioni della politica del secondo Dopoguerra. I punti di riferimento erano fissi nel quadrante della storia: le maggioranze politiche venivano determinate dall’elettorato e dovevano essere autosufficienti, nel senso che dalle opposizioni sarebbero potuti arrivare solo voti aggiuntivi, mai determinanti.

C’era però una terra di nessuno” (definito “arco costituzionale”) più ampia in cui avevano agibilità, legittimità e cittadinanza altre forze politiche (come il Pci, il maggior partito di opposizione nella Prima Repubblica) a cui era precluso l’esercizio del potere nell’ambito di un sistema di alleanze internazionali che non lo consentivano. Tuttavia essere parte dell’arco costituzionale era pur sempre un riconoscimento per aver svolto un ruolo rifondativo nel cambio di passo istituzionale che, iniziato nella Resistenza, aveva accompagnato il paese verso la democrazia. In sostanza, la nuova Italia non poteva non essere antifascista, mentre le era precluso di essere parimenti “anticomunista”. Diverso da quello del Pci era lo status dell’estrema destra che faceva riferimento alla RSI, ovvero a quanti avevano combattuto dalla parte sbagliata della storia, e perciò era stata esclusa dalla definizione delle nuove regole.

Anche a livello internazionale esisteva un “arco costituzionale” – coincidente con la composizione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, di cui era parte integrante l’Urss, che aveva esercitato un ruolo fondamentale nella sconfitta del nazismo in Europa (sia pure grazie agli armamenti e gli aiuti forniti dagli Usa) e che era stata redenta in seguito all’aggressione nazista. Così il trattamento speciale riservato al comunismo internazionale e nazionale induceva le democrazie a generose aperture di credito nei confronti sia dello Stato guida sia dei partiti comunisti rimasti al di qua della cortina di ferro. Soprattutto in Italia – per le caratteristiche che aveva il Pci – veniva dedicata dai circuiti politici e mediatici un’attenzione spasmodica ai movimenti – anche se cauti e difficilmente percettibili – della linea politica del partito per antonomasia verso una maggiore autonomia dal Cremlino. Si dava la caccia alle virgole, alle parole, alle formule astratte.

La nuova identità

Ci siamo lasciati rifilare i partigiani della pace, la via nazionale al socialismo, il culto della personalità, l’eurocomunismo, il compromesso storico. Ma l’esempio più clamoroso di queste aspettative mal riposte e deluse furono le due parole (“grave dissenso”) con cui l’Ufficio politico del Pci commentò, nell’agosto del 1968, l’aggressione della Cecoslovacchia a opera delle truppe del Patto di Varsavia. Tanto fu l’entusiasmo con cui vennero accolte queste due parole che nessuno fece caso al prosieguo del comunicato: “È nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani all’Unione sovietica e al Pcus”. Poi sappiamo come è finita questa storia: con la scorciatoia di una nuova identità pochi giorni dopo il crollo del Muro di Berlino.

Eppure gli italiani furono indotti a ritenere che il nome da dare alla “Cosa” fosse un affare loro. Furono quindi trascinati dalla tv di Stato, dalla cinematografia di regime (dove a chi voleva cambiare nome le mogli mettevano pure le corna) e dalla stampa amica (quasi tutta) a sentirsi coinvolti nello psicodramma collettivo che si consumava nelle sezioni del Pci. Del resto quelli della mia generazione – soprattutto se orientati a sinistra – non avrebbero potuto (parafrasando Benedetto Croce) non definirsi comunisti.

Tutto ciò premesso, quale vuole essere il senso di questa ricerca del tempo perduto? Ce la caviamo con una semplice domanda. Se abbiamo atteso per decenni “l’apparir di un amico stendardo” a opera di un grande partito popolare come il Pci, perché non dovremmo avere il medesimo interesse nei confronti dei reduci del fascismo, nel momento in cui attraversano a grandi passi la “terra promessa” della democrazia, dei valori e delle alleanze occidentali? Perché non dovrebbe essere considerato un vantaggio per il paese la “normalizzazione” di una forza politica che, alla fin dei conti, è stata sdoganata dall’elettorato? È in atto, invece, una campagna di odio che talvolta raggiunge derive antropologiche e razziste, come se fosse in corso una guerra di religione.