Pubblichiamo stralci del discorso pronunciato il 26 giugno del 1920 da Filippo Turati alla Camera dei deputati.
Onorevoli colleghi e compagni! L’idea madre del mio modesto discorso è semplice. Vera oggi, come ieri, come domani; ma, nel mutare inevitabile dei tempi, diverso può esserne il punto di applicazione. Se ogni lotta di classe è lotta essenzialmente politica e viceversa, è evidente che ogni politica trae colore e vigore dalla classe sulla quale essenzialmente si appoggia. Rivolgendomi oggi alle classi borghesi, le quali, se anche non nelle proporzioni di una volta, hanno pur sempre la dirigenza della società, in un certo senso posso dir loro: oggi, o non più ! Del resto, questo dell’urgenza, è un sentimento che in diverse forme trapela da ogni discorso, è nello stato d’animo di ciascuno di noi. Lo stesso onorevole Giolitti, cui si imponeva, per il posto che occupa, la maggiore prudenza di parola, non temette, e fece bene, di parlare di fallimento imminente, improrogabile, se non si corre ai ripari. Quale fallimento? Di chi? Come deprecabile? Questo è il tema generale della discussione.
II suffragio universale, questa necessità che tutti abbiamo voluto, e di cui siamo i figli, ha generato, nella sua molteplice prole, un figlio cattivo: il gesto demagogico; la gara, dirò meglio, dei gesti demagogici. Noi dovremmo, come Bruto, condannare a morte questo figliolo traditore. Noi dovremmo insorgere contro di esso. Il demagogismo non è affatto, come si pretende, un privilegio dei partiti avanzati. C’e un demagogismo dei conservatori e dei Governi, che è di gran lunga il peggiore. La politica non è questo: non dovrebbe essere questo; e lo sarà sempre meno, quanto più i popoli diverranno consapevoli. La politica non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai Ministeri, non è nelle sapienti combinazioni parlamentari, non è nelle competizioni degli uomini; non è nei sonanti discorsi. È, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica. E una tecnica, essenzialmente, è anche il socialismo. Noi stessi lo dimentichiamo troppo spesso, forse, quando nel fervore degli attacchi e dei contro-attacchi, subiamo noi stessi l’avvelenamento di tante illusioni, l’asfissiamento di tanto fumo.
Il socialismo, nel suo primo e più grande assertore, è l’espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico; è lo sforzo di adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico. In questo senso, e in doppio senso, il socialismo è scientifico: in quanto sorge dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione; e in quanto chiama la scienza a proprio servizio.
La schiavitù cessa, secondo il vecchio motto famoso, quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi. Ora voi tutti, signori, cercate, in questo momento, più che mai la salvezza : la salvezza del Paese e la vostra. Anche i socialisti cercano la salvezza del Paese e la loro. Se oggi il partito socialista, così com’è, sembra ad alcuni eccessivo di intransigenza, di vivacità, di precipitazione, pensino coloro, che di questo lo accusano, che ciò è l’effetto fatale della guerra, la quale ha creato nelle masse uno stato di insurrezione psichica che non sarà domato se non da conquiste reali, radicali e profonde.
E il partito deve riflettere questo stato delle masse, per interpetrarle, ed eventualmente anche per poterle contenere. Chi spera che le differenze inevitabili di tendenze, che sono in ogni partito vivo, debbano condurci al distacco, allo sfacelo, credo che si inganni. Credo fermamente, e non da oggi e non per opportunità del momento, nella fondamentale necessità dell’unità del partito socialista. (…). Nelle sezioni del nostro gruppo si studiano proposte di legge e provvedimenti positivi, col consenso anche dei nostri più estremi estremisti, che eventualmente potrebbero anche essere l’àncora di salvezza per quel tanto di regime borghese, che è giusto debba per un certo tempo, sopravvivere nella zona del trapasso storico. Questa incoerenza formale è la prova che siamo vivi; che la formula ci serve ma non ci opprime; che sappiamo distinguere, e che non confondiamo quella che sarebbe collaborazione vera e propria di partiti e di classi, pericolosa in dati momenti, specialmente pericolosa per i più deboli, da quella che è coincidenza o comunione inevitabile di interessi vitali, insuperabile in qualunque convivenza sociale; che abbiamo nel nostro programma effettivo, quello che erompe nell’azione la quale è la grande pacificatrice delle tendenze, l’oggi e il domani, l’oggi per il domani, il domani per l’oggi. Certo non è più, oggi, la ormai arcaica distinzione del programma minimo e del programma massimo, come si concepiva una volta, che era un po’ una concezione cattolica, forse più del vecchio che del nuovo cattolicismo.
(…)
Perciò si parla, non da noi soltanto, di periodo rivoluzionario, di crisi di regime : di regime politico, di regime sociale. Molti di voi ripetono oggi, e molti credo in buonissima fede, che molto bisognerà concedere per non perdere tutto, per mantenere la compagine sociale, dico la compagine, non dico l’attuale compagine; per conservare ciò che è degno di essere conservato, ciò che è necessario ai supposti eredi del domani; per non precipitare insomma nell’anarchia, che è un po’ la sorella, un po’ la figlia del capitalismo, e che sta in diametrale antagonismo teorico, che è la negazione in termini, del socialismo. Molti sentono fra voi che ciò che siamo usi chiamare l’ordinaria amministrazione, non basta più. Lo sentì l’onorevole Nitti, che si ribellò, almeno idealmente, al trattato di Versailles che era (e dico che era perchè si può forse cominciare a parlarne al passato prossimo) il capitalismo, nella sua più cruda espressione, applicato alla politica internazionale; era la pace di guerra, così come il capitalismo, all’interno e all’estero, è sempre la guerra anche in tempo di pace.
L’onorevole Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe prese da essi anche molte direttive nella politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte. E più volte preluse all’inevitabile, all’augurabile avvento di un Governo laburista in Italia. Ma l’azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata e ne tenne la sua fatale caduta. Così è tornato l’onorevole Giolitti, il cui ritorno a quei banchi sembra l’epilogo solenne di un vasto dramma, non soltanto suo personale, ma nazionale e storico, e trascende di gran lunga l’importanza di uno dei consueti avvicendamenti ministeriali. Bisognerebbe essere un po’ meno che uomini per non sentirlo, a qualunque idea si appartenga, sotto qualunque vessillo si militi (…). Ma dopo di lui molti vedono il buio, il nulla, l’abisso. Altri, dopo di lui, intravvedono l’alba; e ciascuno si sogna l’alba che più gli conviene. Certo è che la monarchia, in questo crollare fragoroso di troni e di dominazioni, non parve mai meno salda di ora anche in Italia. (…) E più si carezza il socialismo, e più esso rilutta e vi sfugge.
Ora qui accade di ricordare una frase di Claudio Treves, che chiuse un suo mirabile recente discorso. Nel quale il mio amico analizzò la grande tragedia dell’ora, e a questa tragedia pose il nome: « Espiazione ». Espiazione, egli intese, della borghesia, che volle la guerra, che vinse la guerra, che non seppe e non sa darci la pace. (…) La borghesia, in questo momento, non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione. Così Treves chiuse il suo discorso. (…) Ogni trapasso, anche se assume forme violente, è sempre un assorbimento del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo; con questo vantaggio che il vecchio non si rinnova e il nuovo non si rinvecchia. E questa è la rivoluzione. Perciò, ripeto, chi è assorbito assorbe. La generazione, la procreazione, la fecondità sono a questo patto. (…) Il gradualismo dell’onorevole Giolitti è un gradualismo prebellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia. Il gradualismo è una magnifica cosa. Io sono accusato ogni giorno da questi miei turbolenti compagni di essere troppo gradualista.
Comunque, il gradualismo è una cosa ammessa da tutti (abbiamo persino un massimalismo gradualista !) quando la natura delle cose lo consente. Quando insomma c’è tempo e si può aspettare. Allora, chi va piano va sano, e va qualche volta lontano. (…). Il rimedio primo, il più vero, vorrei dire il solo rimedio, è nel trasformare l’economia, non la finanza del Paese. Ciò che voi ponete dopo, deve venir prima, o almeno contemporaneamente. Tanto più che a rendere più spinose tutte le questioni, più difficili tutti i rimedi, concorre la crisi psicologica, la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale, ma più grave in Italia, perchè è paese economicamente fra i più deboli di Europa. Non dirò dei fenomeni più appariscenti: il lusso sfrenato, rivoltante, che fa pensare con nostalgia, per quanto scettica, alle antiche leggi suntuarie. Ciò che più impressiona è lo spirito di indisciplina, che ha invaso tutte le classi sociali. Aggiungete il menomato rispetto della vita umana, dell’altrui come della propria.
La guerra ha alterato profondamente tutti i consuetudinarii valori morali. La gente minaccia l’altrui vita, ed espone la propria, con una indifferenza non conosciuta prima della guerra. Il trattato di Versailles, che è – lasciatemi ripeterlo – l’espressione del capitalismo più crudo applicato alla politica internazionale, e la cui revisione si impone. Ora, su ciò tace completamente il programma del Governo. Se non che, forse, anche in questo silenzio è un argomento a favore della mia tesi, della preminenza, necessità ed urgenza assoluta della restaurazione economica del Paese, anche prima delle economie e dei provvedimenti finanziari.
Perché, certo, finché noi saremo così strettamente vassalli dell’estero per il pane quotidiano quale voce effettivamente influente potremo avere nei consessi dei potentati, sia pure con le proposte Commissioni parlamentari? Dopo aver demolito la Germania, con nostro danno infinito, oggi dobbiamo pensare ad aiutarla a ricostruirsi per il nostro meglio; dopo aver combattuto la Russia, o almeno essere stati nella combriccola che si ingegnava di combatterla, dobbiamo fare di tutto per rappacificarci al più presto con quel grande ex impero ; dopo aver suscitato la guerra civile in Albania (a proposito, quanto c’è costata, onorevole Meda?) che si ripercuote in un’altra e ben peggiore guerra civile in Italia (e i fattacci di Ancona ammaestrano) dobbiamo dichiarare che rinunziamo (e ahimè! non farà ciò l’impressione della favola dell’uva acerba?) a ogni protettorato.
E via via. Non vi è punto del trattato di Versailles che non sia tutto da rifare, da capovolgere. Senza dire che l’onorevole Giolitti, il quale fu già rimproverato, e sia pure a torto, di aver lasciata disarmata l’Italia (e dovette difendersene nel discorso di Dronero) e vuoti i magazzini militari, in un periodo pericoloso, certo non vorrà affrontare oggi la stessa accusa, nell’evento di altre guerre possibili. Ora, onorevole Giolitti, voi avete fatto, con nobili parole, appello all’Internazionale operaia, nel vostro discorso di Dronero, Per la salvaguardia della pace. Ma l’Internazionale proletaria non può esistere, non può essere forte, se non siano forti localmente, in ogni nazione, i proletariati organizzati ed i partiti socialisti. Ora questi proletariati e questi partiti cominciano ad avere la loro politica estera e cominciano ad imporla ai rispettivi Stati. È inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versailles perchè esso è una abominazione, perchè esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia.
Ora l’onorevole Giolitti, nel discorso di Dronero, ha toccato tutta quanta la gamma della restaurazione economica. Agricoltura da industrializzare; emancipazione dal grano estero; chi lascia terre incolte commette un delitto (onde il suo progetto granario); confisca delle terre incolte; il cotone da coltivarsi nell’Eritrea o nel Benadir; irrigazione; istruzione agraria e tecnica serie; industrie che occupino più mano d’opera e meno materie prime, mentre sono ancora tanto care; utilizzazione delle forze idriche e quindi emancipazione dal carbone estero ecc., ecc. Insomma tutto il ricettario. Ossia Giolitti è ancora Nitti. E siamo, ripeto? tutti d’accordo ! Ma la questione non è nell’essere d’accordo in teoria; è nel volere e nel potere realizzare. Direi quasi che il problema è superiore alla volontà dell’uomo. Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma ? Lo vuole essa davvero? ’ Cè nel congegno del capitalismo italiano di quest’ora (poiché anche fra capitalismo e capitalismo bisogna spesso distinguere) qualche attrito invincibile che impedisca questa realizzazione? (…)
Tanto più, badate, che in questo caso non si tratta di prestiti allo Stato, ma di prestiti alla Nazione. In altri termini: la soluzione della crisi, politica, economica, morale, crisi di regime, crisi di trapasso, chiamatela come meglio vi garba, consiste nel creare subito le condizioni economiche e politico-morali per cui la Nazione possa in breve termine raddoppiare la sua produzione. Oh Dio, non pigliate la parola « raddoppiare » nel senso strettamente aritmetico; non s’intende dire che si debba produrre il doppio di grano, il doppio di tessuti, ecc., ecc. ; s’intende resuscitare nuove sorgenti naturali, non artificiali, di energia nel Paese, perché esso possa superare il deficit. Quando questo si sarà ottenuto, si sarà molto più che raddoppiata la ricchezza.
E ho parlato di condizioni economiche e di condizioni politico-morali, che sembrano due cose diverse e sono invece una sola; perchè non si creano veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche – e questo dico alla borghesia – e non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche – e questo dico ai miei compagni – senza certi coefficienti economici. Bisogna che il Governo d’Italia – borghese ? comunista? bolscevico?; Giolitti ? Misiano? Non importa il nome e la persona; non importa neppure l’etichetta, perchè “vi può essere un bolscevismo (vedi Russia) che finisce per creare tutto ciò che vi è di più antisocialista, la piccola proprietà: l’economia è più forte di tutte le formule e di tutti i programmi a tavolino; … bisogna, dicevo, che lo Stato italiano, diventi da politico, economico; anticipazione precipitata del comunismo classico, secondo la definizione e il presagio del nostro Engels, per il quale il «Governo degli uomini » doveva, nel comunismo, diventare «l’amministrazione delle cose ». È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi.
(…)
L’uomo è l’operaio, il proletario lo scontento, il ribelle, il rivoluzionario, e sarà tale finché non ne avremo fatto il padrone del lavoro e della produzione. Questo è dunque il programma dell’avvenire. Io non so chi lo eseguirà. Io so che, senza questo elemento, dell’emancipazione dell’operaio, niente di questo si farà. E non occorre essere socialisti. Io ho trovato – mi è arrivato l’altro giorno e lo avrete ricevuto anche voi – in questo libro fatto tutto da parrucconi molto rispettabili – che contiene gli studi e le proposte della Commissione del dopo guerra presieduta da Vittorio Scialoja, a un dipresso le medesime mie conclusioni. Leggete la relazione del nostro ex collega onorevole Fava, presidente della sezione decima. Egli dice le medesime cose: «Se non create le condizioni necessarie all’interessamento degli operai nella produzione, dati i tempi mutati, data la psicologia del dopo guerra, non otterrete nulla di nulla».
Una volta era questione di giustizia, oggi è questione di vita o di morte. Conosco altri due uomini che hanno veduto queste cose; e sono un antico ed un moderno. Il moderno è il dottor Ratenhau, forse il più geniale ricostruttore, che abbia dato la guerra ; il quale nella sua Economia nuova dimostra, meglio che io non abbia saputo, come questa valorizzazione dell’uomo in Germania – e oggi là le condizioni sono peggiori che in Italia – sia indispensabile per redimere il paese. Vorrei ottenere che la Economia nuova fosse letta dai colleghi deputati: il mio discorso avrebbe raggiunto tutto intero il suo scopo. Solo quel popolo – afferma l’autore -che prima avrà soppresso l’antagonismo che è fra l’operaio ed il capitale, solo quel popolo trionferà.