L'intervista al rettore
“La lezione su Dostoeveskij si può fare al Suor Orsola, la cultura non si censura”, il rettore d’Alessandro invita Paolo Nori
«Non conosco benissimo lo scrittore ma conosco abbastanza bene Dostoevskij, è un patrimonio dell’umanità e non certamente di Putin solo perché è vissuto in Russia un paio di secoli fa. E anche chi ne parla è assolutamente benvenuto». Il rettore dell’università di Napoli Suor Orsola Benincasa, Lucio d’Alessandro, commenta così la polemica nata in seguito alla decisione, poi ritirata, dell’università di Milano Bicocca di rinviare il corso dello scrittore Paolo Nori sul grande scrittore russo.
Lei, dunque, ospiterebbe una lezione su Dostoevskij e la cultura russa?
«Assolutamente sì. Oggi più che mai dobbiamo rivendicare la grande cultura russa non come parte ma proprio come uno dei fili del tessuto della cultura universale, quindi non può essere di qualcuno. Questa idea della cancel culture – condanniamo, perché russo, uno che è vissuto due secoli fa – è una cosa che non mi sento di apprezzare. La storia non si cancella. Il nostro ateneo, per fare un esempio, si chiama Suor Orsola Benincasa e questo è fonte di equivoci perché molti pensano che si tratti di un’università religiosa, del Vaticano. Addirittura qualcuno mi ha chiamato monsignore… In realtà siamo un’università laica e quando un secolo e mezzo fa l’antico convento di Suor Orsola divenne università era un periodo in cui c’era polemica nei confronti della chiesa, ma nessuno ha mai pensato di cambiare nome all’ateneo perché bisogna riconoscere la propria storia, non cancellarla. Se sostenessimo la cancel culture dovremmo mettere da parte Catone il censore perché parlava della schiavitù, mi sembra assurdo».
Dall’Ucraina arrivano continuamente notizie di bombardamenti: a Kharkiv sono state colpite tre scuole. Questa guerra, dunque, non risparmia i luoghi della cultura. Come il mondo della cultura, e quindi delle università, può agire in questo momento?
«La cultura è sempre il maggior deterrente, perché la cultura per sua natura è dialogica, anche quando è dialettica continua a costruire, continua ad aprirsi. Quindi, nella misura in cui noi continuiamo a fare il nostro lavoro, a scrivere, a pensare, a testimoniare la libertà, siamo in un ambito di costruzione di una comunità di pensiero. Non è un caso che noi, come ateneo, abbiamo assunto l’iniziativa di mettere su tutte le nostre sedi bandiere per dire che i luoghi del sapere sono per la pace. È nella natura delle cose che i luoghi del sapere siano per la pace, e nel momento in cui le scuole e le università continuano a fare il loro lavoro stanno lavorando per la pace».
Ha fatto riferimento all’iniziativa, promossa dalla sua università appena arrivata la notizia della guerra in Ucraina, di tappezzare di bandiere arcobaleno tutte le sedi. Quali riscontri ha avuto finora?
«L’iniziativa è partita da una collega che si occupa di psicologia dell’età evolutiva, la professoressa Antonella Gritti, la quale mi ha scritto con riferimento al periodo difficilissimo che stanno vivendo i nostri giovani, che hanno vissuto questi anni della pandemia come un terribile tunnel che li ha privati della loro socialità, facendoli temere per la loro vita e per quella dei loro cari, rendendoli più incerti sul loro futuro e condizionandoli in tutti i comportamenti. Ora questi giovani si trovano di fronte allo spettro, per alcuni versi sconosciuto, della guerra di cui avevano sentito parlare, ma capire che ci sono dei bombardamenti in atto e scuole sventrate è una realtà molto angosciante. A questi giovani quindi, e anche ovviamente alla popolazione ucraina così duramente colpita, abbiamo voluto dare un messaggio di fiducia e di speranza, comunicando che quel sapere a cui stanno affidando il loro futuro è schierato da una parte precisa e costruisce la pace, perché è un luogo di pace. Questo è il senso dell’iniziativa e devo dire che abbiamo avuto molti riscontri soprattutto da parte degli studenti, alcuni anche particolarmente toccanti di ragazzi che vivono con assoluta angoscia questo momento e ci ringraziano per il segnale che abbiamo voluto dare».
Ci sono studenti ucraini o russi nel suo ateneo?
«Sì, ce ne sono nelle nostre scuole».
Come si costruisce secondo lei la pace? È davvero sempre necessario passare per una guerra?
«Penso che la pace sia il costrutto di una cultura. Quello che c’è oggi di straordinario in Europa, e che secondo me deve essere tenuto presente, è che l’Europa è stata capace di costruire una cultura comune e che non ha lasciato riaprire nessuno di quei margini di conflitto che si sono tante volte ripetuti. Pensiamo all’Italia e ai confini con l’Austria, la Slovenia, il fronte franco tedesco. Si è riusciti a costruire una cultura di pace, questo non significa che non bisogna comunque vigilare sulla pace, e vigilare con la cultura ma anche con quale deterrenza, perché il rischio che quando si è del tutto inermi qualcuno abbia voglia di impadronirsi di te c’è sempre».
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