Questa ossessione per il successo, la perfezione, per essere e apparire sempre e comunque vincenti. Giannis Antetokounmpo l’ha fatta a pezzi, l’ha schiacciata a parole, misurate e calibrate, e non con la sua stupefacente fisicità da campione NBA. “Questo è lo sport. Non devi sempre vincere. Vincono anche gli altri. E quest’anno vincerà qualcun altro”, ha detto ai giornalisti e le sue parole hanno fatto il giro del mondo, sono diventate virali. Una lezione, hanno scritto. Un manifesto, perché no: contro le vite perfette postate sui social, la competitività tossica, la negazione della sconfitta.

Antetokounmpo era appena stato eliminato dai Miami Heat al primo turno dei playoff della Eastern Conference del campionato di basket NBA. Dopo la gara e la sorprendente eliminazione della miglior squadra della regular season, l’ala destra per due volte eletta miglior giocatore del campionato (MVP) si è presentata in conferenza stampa nella notte tra mercoledì e giovedì. Antetokounmpo è già un mito: nato in Grecia nel 1994 da genitori immigrati nigeriani, faceva il venditore ambulante di fazzoletti e occhiali. Per 18 anni è rimasto apolide.

Andava in palestra a turno con il fratello, perché avevano un solo paio di scarpette. Al draft dell’Nba del 2013 è stato quindicesima scelta. Pare che dopo aver comprato una PlayStation 4, il giorno dopo la rivendette al vice allenatore per i sensi di colpa: aveva speso troppo. Lo chiamano “Greek Freak” e “The Human Alphabet”. Con i Milwaukee Bucks ha vinto l’anello nel 2021: non succedeva da cinquant’anni. Ha firmato nel 2020 un accordo di cinque anni da 228 milioni di dollari in totale. Con Miami ha sbagliato 10 punti su 23 dalla lunetta.

“Oh mio dio… mi hai fatto la stessa domanda un anno fa, Eric. Tu ricevi una promozione ogni anno, nel tuo lavoro? No, giusto? Quindi ogni anno il tuo lavoro è fallimentare? Sì o no? No”, ha risposto in conferenza stampa a un giornalista di The Athletic che gli aveva chiesto se vedesse la stagione come fallimentare. “Ogni anno lavori per raggiungere qualcosa, un obiettivo, una promozione, per essere in grado di prenderti cura della tua famiglia, dargli una casa in cui vivere. E non è un fallimento questo, sono tappe verso il successo. Non ho niente contro di te personalmente, è che ci sono sempre dei passi da fare. Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento? Non esiste fallimento nello sport. Ci sono giorni buoni e giorni meno buoni. In alcuni sei in grado di ottenere il successo, in altri no. Qualche volta è il tuo turno, altre volte no. Questo è lo sport: non devi sempre vincere, vincono anche gli altri. E quest’anno vincerà qualcun altro”.

Il video della risposta di Antetokounmpo ha fatto il giro del mondo. È diventato virale in anni in cui carriere di grandissimi, di sportivi ai massimi livelli, sono state colpite o interrotte dal peso delle aspettative. La stessa ossessione per la vittoria, la stessa negazione della sconfitta che hanno portato al giorno più buio della democrazia americana con l’epocale assalto al Congresso degli Stati Uniti da parte dei supporter dell’ex Presidente Donald Trump. Vincere non è l’unica cosa che conta. Prossimo step: schiacciare anche la retorica della resilienza, quella secondo cui da una sconfitta si possa trarre sempre qualcosa di buono, per la quale se si perde si deve imparare a prescindere. Può essere un’opportunità, può non esserlo affatto, e in quei casi tocca inventarsi qualcosa per ripartire. Conviene affrontarlo, ce la possiamo fare.

 

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.