Abbiamo conosciuto i talebani per il terrore che hanno sparso nel mondo e nel loro Paese. Il modo in cui hanno portato a termine, nei territori sotto il loro controllo, le esecuzioni capitali-extra giudiziarie – sempre in pubblico, fossero lapidazioni, impiccagioni o decapitazioni – ha contribuito a corroborare questo senso di sgomento.
Nel monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino, salvo qualche eccezione, non è trascorso anno in cui non si siano registrate notizie di esecuzioni sommarie. L’ultima risale a poco più di un anno fa.

Il 26 giugno 2020, un tribunale da campo, nella provincia di Faryab, ha condannato a morte e subito dopo impiccato in pubblico, due giovani uomini solo perché si erano rasati la barba. Non posso dimenticare la notizia del 10 giugno 2010 quando un bambino di sette anni è stato appeso a un albero del villaggio di Heratiyan, nella provincia di Helmand, per spionaggio in favore delle Forze Usa e Nato. E poi ci sono gli innumerevoli orridi casi di lapidazione. L’ultimo a noi noto risale alla fine del mese di ottobre del 2015 quando una giovane donna identificata come Rokhsahana, di età compresa tra i 19 e 21 anni, fatta sposare contro la propria volontà, è stata lapidata dai talebani a Ghalmeen, nella provincia di Ghor, per aver cercato di fuggire con un suo coetaneo. Un video mostra la donna in una buca nel terreno, mentre alcuni uomini le tirano addosso pietre con lei che, con voce sempre più affievolita, recita la “shahada”, la professione di fede musulmana.

Non è mancato però in questo periodo un appello da parte di alcuni talebani alla comunità internazionale. Lo hanno fatto nel maggio 2008 per dissuadere il Presidente Hamid Karzai dall’approvare le esecuzioni di circa 100 prigionieri, dopo che erano state confermate dalla Corte Suprema. Il consiglio direttivo dei talebani aveva reso noto che l’80% dei condannati a morte non avrebbero dovuto essere giustiziati in quanto «detenuti con l’accusa di aver lottato per la libertà». La dichiarazione pubblicata sul sito web dei militanti recitava: «chiediamo alle Nazioni Unite, all’Unione Europea, alla Croce Rossa e alle organizzazioni per i diritti umani di prendere posizione contro questo atto barbarico e di fermare l’uccisione di prigionieri innocenti».

Oggi i Talebani sono al Governo dell’Afghanistan. Molti temono che la pratica della Sharia diverrà sistematica con la traduzione letterale dei precetti religiosi in articoli del codice penale. A ben pensare, però, è probabile che la loro presa del potere sarà anche una presa di coscienza di cosa significa esercitarlo di fronte a quella comunità internazionale a cui loro stessi si sono rivolti, quando in pericolo c’era la vita di un centinaio di loro militanti condannati a morte. La furia di pene dettate dalla Sharia può trasformarsi in una tregua delle pene coraniche stesse se la nostra, oltre che delle Nazioni Unite, proposta di moratoria delle esecuzioni capitali verrà avanzata dalla comunità internazionale – e, per primi, dai paesi abolizionisti – in questa fase di transizione. Perché la moratoria è un punto di incontro tra mantenitori e abolizionisti che mentre salva vite umane dà modo di guadagnare il tempo necessario a creare nel dialogo e, nella conoscenza, coscienza nella gente.

Finora in Afghanistan ci siamo illusi di vincere senza con-vincere, vincere con. Abbiamo scelto la via sbrigativa della forza materiale, bruta e, alla fin fine, impotente della violenza e della guerra. Invece di seguire quella più complessa del dialogo, della speranza, della nonviolenza, una forza immateriale e gentile ma più potente delle bombe che abbiamo lanciato, delle armi che abbiamo impugnato. Una forza potente perché alimentata dalla coerenza tra i fini che si perseguono e i mezzi che si impiegano per ottenerli. Marco Pannella che proprio durante la crisi afghana del ’79 creò, con altri intellettuali, Action internationale contre la faim, parlando di interventismo umanitario e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica più che di carità a buon mercato, costruì anche un Partito, il Partito Radicale ispirato e orientato da un preambolo straordinario allo statuto. Quello che conferisce all’imperativo del “non uccidere” valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa.

Di fronte al disordine e alla violenza del Potere, alla Ragion di Stato e agli stati di emergenza, Pannella ha manifestato, incarnato una visione alternativa: l’ordine e la nonviolenza del Diritto, l’armonia e la coerenza dei Diritti Umani Universali, l’emergenza dello Stato di Diritto e di uno stato elevato di coscienza. L’esperienza della “violenza levatrice della storia” e del “fine che giustifica i mezzi”, l’abbiamo consumata, anche in Afghanistan. Proviamo ora a cambiare registro. Sperimentiamo una via alternativa. Il potere, qualunque esso sia, anche quello dei talebani, non va demonizzato ma mutato con la forza del dialogo e della nonviolenza. Per mutarlo proviamo di nuovo a seguire la linea di condotta che fu, nella loro vita e nella loro lotta, quella di Marco Pannella e del Mahatma Gandhi: essere speranza contro ogni speranza, essere innanzitutto noi il cambiamento che vogliamo vedere negli altri.