Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che la separazione dei poteri in Italia è una chimera, apra subito il sito istituzionale del Ministero della giustizia e legga i nomi dei capi dipartimento e dei responsabili degli uffici di diretta collaborazione del Guardasigilli. Scoprirà che sono tutti (tutti) magistrati collocati, previa autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura, “fuori ruolo”. L’argomento non è nuovo. Il recente scontro fra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede a proposito dell’incarico, capo del Dap o direttore degli Affari penali, che sarebbe stato offerto all’ex pm antimafia dal ministro appena insediatosi a via Arenula ha, però, fatto tornare di attualità questa tematica che si trascina stancamente da anni fra mille polemiche.

Tralasciando infatti il caso in questione – Di Matteo è da sempre una icona per i grillini – in che modo i ministri della Giustizia scelgono i loro più stretti collaboratori? La regola non “scritta” prevede che il numero uno di via Arenula effettui una “consultazione” con i referenti delle varie correnti dell’Anm. I capi delle correnti indicano allora al ministro i rispettivi candidati. Normalmente la scelta ricade su magistrati che hanno fatto vita associativa in mood attivo. Toghe, insomma, che hanno dato prova di stretta adesione al gruppo, scalando tutti i gradini della corrente fino al raggiungimento di posizioni di rilievo. Si cerca di trovare una mediazione fra i desiderata del ministro e quelli dei ras delle correnti. Lo scopo è garantire la rappresentanza delle varie anime dell’associazionismo giudiziario in proporzione al consenso elettorale della singola corrente. Una sorta di manuale Cencelli togato.

Nella scorsa legislatura, Guardasigilli Andrea Orlando (Pd) e maggioranza relativa al Csm dalla parte del cartello progressista di Area con ben sette consiglieri su sedici, il ministro della Giustizia era “monopolizzato” dalle toghe di sinistra. Erano di area progressista il capo di gabinetto e i suoi due vice, il capo dell’ufficio legislativo, il capo dell’ispettorato e il suo vice. Unicost, il gruppo di centro che aveva cinque consiglieri al Csm, esprimeva il capo dipartimento organizzazione giudiziaria e dei servizi e il suo vice, più diversi direttori generali: giustizia civile, servizi, personale e della formazione. Magistratura indipendente, la corrente di destra con solo tre consiglieri a Palazzo dei Marescialli, aveva il capo del Dap e il suo direttore generale, oltre al vice capo ufficio legislativo.

Bonafede, cambiata la gerarchia del potere in magistratura con l’ascesa dei davighiani a discapito delle toghe progressiste, aveva puntato su magistrati vicini al gruppo dell’ex pm di Mani pulite, effettuando anche colloqui con i potenziali candidati. Vedasi, appunto, Di Matteo. La commistione tra politica e magistratura ha tante controindicazioni. Viene meno il principio di indipendenza in quanto il magistrato, accettando il fuori ruolo, deve condividere l’indirizzo politico del ministro. E si creano carriere parallele dal momento che pur non scrivendo una sentenza la toga avanza nelle valutazioni di professionalità.

E poi ci sono gli stipendi che si attestano per questi incarichi mediamente sui 240mila euro lordi. Tranne il caso del capo Dap: la maxi retribuzione viene “trascinata” anche quando si termina l’incarico e vale ai fini pensionistici. Rita Bernadini con i Radicali aveva provato negli anni a stoppare, senza riuscirci, questa “tradizione”. Al momento il numero dei magistrati fuori ruolo è fissato in 200. La durata dell’incarico non può superare i dieci anni.
Tornando invece a Di Matteo, nella serata di ieri è arrivata la reprimenda da parte dell’Anm. «Ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero – si legge in una nota – è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le istituzioni».