Il j'accuse del libro di Palamara
La magistratura è inquinata ma nessuno fa nulla e il sistema affonda
È forse giunto il tempo di distogliere lo sguardo dalle miserie umane e istituzionali compendiate nel noto libro di Palamara e tornare a una discussione meno intralciata da singoli destini e minute controversie al limite, qualche volte, del pettegolezzo. La virata non è né facile, né si può negare che si presti a qualche sospetto da parte dei girondini di turno ora a caccia di scalpi. Tra l’altro, l’azione di bonifica è appena iniziata sia in sede disciplinare (Csm) che deontologica (Anm) e ci vuole pazienza, ma è innegabile che già se ne intuiscono gli inevitabili limiti.
Per carità, non è poca roba. Ma non si può fare a meno di constatare che – salvo un paio di casi, uno dei quali connesso a una scabrosa, quanto controversa vicenda personale – a rotolare nel canestro sembrano destinate poche teste coronate e molte terze e quarte file della magistratura italiana. I clientes, per intendersi, quelli più adusi alle lusinghe dei potenti e, ora, più esposti alla minuziosa rilettura di grappoli di chat. Mentre i boss stanno in disparte, si godono posti di prestigio lucrati, spesso, senza passare dall’infido Whatsapp del reprobo e attendono furbescamente, come giunchi sulle rive del fiume agitato, che passi la piena. Certo sovviene alla mente il fatto che già da tempo i più avveduti complottisti prediligessero Telegram e non si può escludere che risalenti origini e oblique propensioni abbiano indotto altri persino ad adoperare i più tradizionali pizzini. Quale che siano state le mille forme delle interlocuzioni clientelari è del tutto evidente che solo una parte del fondale fangoso è stata smossa e che troppi “scampati” attendono che l’acqua torni limpida e meno perigliosa per riprendere a dipanare le proprie trame.
Un’operazione di risanamento, quella in corso su vari fronti, inevitabilmente destinata a un drenaggio incompleto delle scorie venute a galla e che pone l’urgenza di comprendere se quanto accaduto sia il frutto di un’occasionale inquinamento delle pure e limpide acque dell’associazionismo togato, ovvero se a essere contaminate siano state le falde più profonde dell’ordine, le sorgenti stesse della vita associativa e, con esse, purtroppo, le fonti della giurisdizione. Perché, a ben guardare, resta un cifra oscura in tutta questa vicenda: sinora chat e conversazioni sono state prese in esame volgendo lo sguardo in modo pressoché esclusivo alle carriere e alle connesse faide. Il J’accuse di Palamara, nello stesso titolo del libro (Il Sistema), è uno squarcio nel drappo pesante che celava la costruzione e la gestione di queste carriere. Ma non è ancora chiaro quale riflesso tutta questa convulsa azione clientelare abbia potuto avere nella gestione di indagini e processi.
In fondo, ma non troppo, ai cittadini potrebbe anche non interessar nulla di come Caio sia divenuto procuratore o Tizio presidente, purché siano resi sicuri che i protocolli delle nomine non abbiano avuto e non avranno alcuna incidenza sui loro processi e sulle loro vicende. Non sarà certo la magistratura l’unico ramo di quel lago opaco che è la pubblica amministrazione italiana in cui troppi dirigenti e capibastone hanno provenienze improbabili di origine politica, massonica o legate a consorterie varie. Di questo profilo ovvero dell’inquinamento della giurisdizione, in queste settimane, si discute poco o nulla. Certo si è scoperto che esistono cordate di pubblici ministeri, appartenenti alla polizia giudiziaria e giornalisti che prendono in carico i propri nemici, interni ed esterni, per abbatterli. Fatto inquietante – noto a tutti da anni con tanto di nomi e cognomi – rispetto al quale però nessun provvedimento legislativo o organizzativo è stato mai seriamente messo in campo, perché il Cerbero ha tre teste tutte capaci di azzannare e far male a chiunque.
Ma non basta. A sprazzi, e con molta cautela, emergono nel racconto del ripudiato Palamara anche le interferenze di certi magistrati su certi processi, la costruzione artefatta delle fonti di prova, le manipolazioni investigative, le complicità poliziesche. Il tutto pare giustificato da una sorta di stato di belligeranza della corporazione con settori della politica che, ahimè, costringeva quelle toghe a una certa disinvoltura. Ma come stare tranquilli che i solerti regicidi e tirannicidi non fossero disposti anche a tagliar gole a qualsiasi altro malcapitato non è ben chiaro. Messo da parte l’intento nobile che ispirava i novelli Bruto, resta forte l’impressione di un uso improprio della giurisdizione, di una confidenza disinvolta con l’obliquità, della giustificazione postuma di un atto non consentito. Dopo l’assassinio Bruto tessé un discorso di grande rilievo: «Preferireste voi Cesare vivo e noi tutti morire come schiavi, oppur Cesare morto, e tutti liberi? … Ma fu troppo ambizioso, ed io l’ho ucciso. Lacrime pel suo amore, compiacimento per la sua fortuna, onore al suo valore, ma morte alla sua sete di potere!» (W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II).
Sappiamo com’è andata a finire dopo il discorso di Antonio e quanto lieve peccato sia stata considerata l’ambizione di Cesare. Parimenti nessuna abiezione politica o morale può giustificare l’esercizio improprio della giurisdizione. Ci saranno pur altre storie, altre vite, altre vittime che hanno pagato la stessa colpa di Cesare. Ma non è lecito attendersi che il racconto del magistrato vada oltre. Ha già troppi impicci perché sia lecito pretendere che ammetta fatti di reato ancora nascosti di cui potrebbe essere stato parte o che potrebbe aver subito e non denunciato. Troppo poco perché possa trovare una risposta tranquillizzante la domanda «ma se hanno liquidato Mevio o Sempronio perché non dovrebbero averlo fatto altre volte?».
La questione resta lì sul tappeto, in tutta la propria inquietante dimensione etica e giuridica, ma inesplorata. Eppure questo interessa, eccome, i consociati i quali avrebbero il diritto di sapere se – sia pure occasionalmente e sia pure a macchia di leopardo – quella separazione tra coniugi, quella causa di risarcimento, quella lite condominiale, quella denuncia o quel fallimento abbiano visto agire la consorteria clientelare venuta a galla in queste settimane o altre omologhe. La linea di galleggiamento del sistema giudiziario è alle soglie dell’affondamento, a dispetto delle centinaia di toghe oneste, capaci e laboriose che, comprensibilmente, vorrebbero che tutto questo passasse in fretta per tornare a lavorare e rendersi utili al paese.
Ma il corpo morale della magistratura è inscindibile dal suo corpo istituzionale perché interamente costruito sulla fiducia dei cittadini e sul credibile esercizio di una enorme autonomia e dell’indipendenza. Se il corpo morale imputridisce per una cancrena circoscritta, ma non sanata, anche il corpo istituzionale rischia di soccombere. Ma di questo discuteremo un’altra volta abusando della pazienza di queste pagine.
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