L’articolo di Sabino Cassese di pochi giorni or sono (“Qualche numero”, Il Corriere della sera, 27 gennaio) contiene un’analisi in larga misura condivisibile dello stato della giustizia nel nostro Paese. Tra cifre snocciolate e proposte mirate per porre rimedio alla crisi profonda del servizio giustizia, l’illustre studioso non manca di elevare il livello del confronto su un piano che, a oggi, è rimasto latente, quasi nascosto nell’antagonismo pur aspro delle tifoserie. Resta, infatti, sempre in ombra quali siano i veri connotati, per così dire, l’identità, il nome e cognome degli epigoni dei due fronti che si danno battaglia.

Cassese ne offre una descrizione a spanne, ma che certo contiene una buona dose di verità: «Rispetto all’immagine tradizionale del magistrato appartato, silenzioso, che parla con le sentenze, rispettato nella società, l’attuale immagine pubblica del magistrato (quale si evince dal comportamento di quelli più chiassosi) è molto diversa: loquace, battagliero, onnipresente, sindacalizzato, circondato da crescente sfiducia». Non ci sono i nomi, ma insomma tutti hanno presente all’incirca di chi si stia parlando; sono le vittime collaterali della riforma di legge posta a tutela della presunzione d’innocenza che ha praticamente ammutolito i procuratori e costretto i più riottosi a prendere a sportellate leggi, ministri, ex ministri, dispensando pagelle e opinioni a ruota libera, per continuare ad avere un qualche strapuntino mediatico. La legge tutela la presunzione d’innocenza dei cittadini, ma non sanziona le sgrammaticature mediatiche a largo raggio.

Sin qui, in verità, si potrebbe dire nulla di nuovo. Il problema è noto e di non facile soluzione poiché occorre mediare tra il riserbo e la continenza pretesi dalla funzione giudiziaria – in applicazione del precetto costituzionale che impone a qualunque pubblico dipendente “disciplina e onore” (articolo 54 Costituzione) – e la libertà di manifestazione del pensiero che compete ai magistrati come a qualunque altro cittadino. Persino prefigurare norme disciplinari è complesso in questa materia in cui la partecipazione al dibattito civile su temi generali costituisce anche esercizio del dovere di ciascun lavoratore di concorrere «al progresso materiale o spirituale della società».

Questo non vuole dire che la toga di turno possa prendere a randellate qualunque malcapitato reo, ai suoi occhi, di attentare all’autonomia o all’indipendenza della magistratura sol perché pretende la separazione delle carriere o vuole limitate le intercettazioni o critica l’ergastolo ostativo. Insomma, ci vuole un punto di equilibrio che, al momento, la corporazione non sa imporsi e la politica non sa neppure dove cercare. Avrà ecceduto il ministro Nordio nell’affermare che alcuni procuratori condizionano l’agenda parlamentare, ma non si può stare a braccia conserte nel sentire dispensati quarti di nobiltà antimafia o patenti di incompetenza, se non peggio, da questo o quel magistrato, in servizio o in quiescenza.

Cassese ha presente il problema e ha ben diritto di inserirlo tra i “numeri” che minano l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario di cui ha detto il vicepresidente del Csm nel suo discorso di insediamento ricordando il martire Rosario Livatino. Eppure, nell’analisi di Cassese, c’è un punto di evidente novità, messo in chiusura delle proprie considerazioni, quasi fosse banalmente cascato tra le righe di una riflessione che sembrava complessivamente scivolare su altri versanti: «L’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo».

Il tema della «politicizzazione endogena» è scottante, urticante, provocatorio. Un calcio negli stinchi. Ma è anche un invito ad affondare il bisturi in una postura ideologica della magistratura italiana che appare ormai acquisita, consustanziale, divenuta congenita in settori non marginali delle toghe. Lenin, Bakunin, Marcuse, come noto, si sono impegnati a lungo nel cogliere limiti e prospettive della cosiddetta “aristocrazia operaia” ossia di quel gruppo di lavoratori che, per un motivo o per l’altro, si trovano ai vertici del proletariato, godendo così di una situazione di superiorità e di privilegio rispetto agli altri. La categoria politica potrebbe servire a gettare una luce, almeno in parte, sulla condizione politica, istituzionale, persino psicologica della magistratura italiana.

Concepita dai padri della Costituzione come un insieme di operai, come una classe di funzionari senza gerarchia e senza subordinazione, addetti paritariamente alla giurisdizione (articolo 107:«I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»), la magistratura ha finito per ricevere e farsi dare un assetto ordinamentale che troppe volte collide con il progetto di una “isocrazia” di eguali, ciascuno dei quali esercita la funzione in piena autonomia e indipendenza e senza controlli esterni. Il problema, soprattutto dalla riforma del 2006 in poi, è particolarmente avvertito negli uffici di Procura che, come noto, censiscono al proprio interno molti tra i «più chiassosi» di cui parla Cassese e ove i condizionamenti sono innegabili e vanno dalle indagini che attingono al potere economico e politico alle prescrizioni d’impiego della polizia giudiziaria, dalla destinazione dei fascicoli più delicati alla costituzione, dopo il 1993, delle oligarchie che si occupano di mafia e terrorismo nei più importanti uffici del paese.

Una realtà complessa, competitiva, a volte opaca, malmostosa come dimostrano anche vicende recenti e non solo. E’ evidente che la materiale separazione delle carriere che già connota la magistratura italiana dal 2006 a oggi, in cui i passaggi di funzioni da requirente a giudicante e viceversa sono pochissimi, abbia portato al formarsi di una “aristocrazia operaia” che ha una propria ideologia e che ha generato la propensione politica endogena di cui parla Cassese. L’esercizio dell’azione penale – a stento e in minima parte circoscritto dalla riforma Cartabia – è uno strumento politico per sua definizione, tant’è che in molte democrazie liberali il pubblico ministero ricade comunque nel perimetro della responsabilità dell’esecutivo o è addirittura elettivo.

Decenni di sostanziale discrezionalità nell’individuazione delle indagini da svolgere e dei soggetti da sottoporre a investigazioni ha impresso nel codice genetico del potere inquirente stimmate di «politicizzazione» che è difficile rimuovere. A questa discrezionalità di fatto si è associata l’elaborazione, inevitabile e conseguenziale, di politiche criminali che rendono ancora più autorevole e sofisticato l’intervento della «aristocrazia operaia» su questi temi con una capacità di annichilire la gran parte degli oppositori adoperando argomentazioni non certo banali o marginali. Il lungo scontro, ad esempio, tra il Ros dei Carabinieri e alcune Procure in anni passati ha radici profonde in questa disparità di sensibilità e di vedute, in questa insofferenza delle toghe verso progetti investigativi elaborati nelle strutture di élite delle forze di polizia e non negoziati con i procuratori che intravedevano, nell’affermarsi di queste inedite progettualità inquirenti, il rischio di essere retrocessi a meri «avvocati della polizia».

Una stratificazione e una costruzione sapienziale quella dei magistrati inquirenti, edificata su una cultura politica e tecnica di livello, che ha generato una “egemonia” difficile da contendere, soprattutto da parte di una politica in gran parte inadeguata e sprovvista di una visione così complessiva e globale del sistema repressivo e giudiziale. Ecco, perché, “in cauda venenum” le parole conclusive di Cassese dischiudono le praterie di una dibattito che, a oggi, manca di una compiuta riflessione e che, certo, non può esaurirsi in poche righe. Tuttavia è necessario comprendere che malamente si accusa questa parte di magistratura militante e combattente di essere prevenuta, accanita, inaffidabile istituzionalmente.

Certo ci sarà e, soprattutto, ci sarà pure stato un manipolo di farabutti, ma la questione appare molto più radicale e affonda nel tessuto connettivo più profondo che caratterizza la magistratura inquirente italiana. Lasciata per anni, anzi voluta dalla politica, alla guida delle politiche criminali non poteva che adoperare l’azione penale nel senso più congruente rispetto ai risultati che doveva conseguire trasformandosi in tal modo – naturalmente e senza nessun preordinata scalata golpista – in un’aristocrazia ideologica e di potere capace di resistere a ogni rivoluzione e vocazionalmente refrattaria a ogni mutamento.