La polvere sotto il tappeto
La magistratura priva di credito si autocelebra, le toghe sviolinano sul Titanic giustizia

Il peccato di origine del corretto ragionatore è il gusto sia per il metodo sia per l’obiettività, sicché paga per questo con costanti frustrazioni e vivendo spesso la vita di un intellettuale proscritto. Ma non è questa una buona ragione per astenersi dal trattare temi scottanti, come le concioni tenute nel corso delle cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario in Cassazione e presso le Corti d’appello. Occorre, dunque, se si abbiano a cuore dignità e reputazione, disattendere il consiglio di Francesco Guicciardini (Ricordi, Garzanti, Milano 1999, 25 p. 38), di guardarsi «da fare quelli piaceri agli uomini che non si possono fare senza fare equale dispiacere a altri: perché chi è ingiuriato non dimentica, anzi reputa l’ingiuria maggiore; mentre chi è beneficiato non se ne ricorda o gli pare essere beneficiato manco che non è».
Al netto delle bétises di chi rivendica di aver «buttato il sangue» accompagnate da stucchevoli geremiadi per «la gente (cioè magistrati, ndr.) che se ne sta scappando perché non ce la fa più» o per «le sezioni di polizia giudiziaria ridotte allo stremo e nessuno lo dice con forza e quando qualcuno lo dice con forza è chiamato pazzo», per quanto flebile, ancora non s’è spenta l’eco dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, là dove, per un verso, ci si è profusi in iperbolici ringraziamenti al presidente della Repubblica uscente, ma tosto rientrato, segnalatosi per un’intensa opera di moral suasion, sebbene, purtroppo, obiettivamente inefficace, ma anche per non aver mai preso attiva posizione, come gli avrebbero imposto le prerogative dell’alto ruolo di garante della Costituzione e di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di fronte ai gravi «scandali» che hanno investito l’organo di autogoverno e ai reiterati deragliamenti di taluni settori della magistratura, rispetto alla funzione istituzionale assegnatale, tali da aver minato irrimediabilmente sia la tenuta costituzionale dei rapporti fra i poteri dello Stato sia la credibilità del «terzo potere»; mentre, per l’altro, si è gareggiato, tra presidenti di corte e procuratori generali, ad autocelebrarsi, riconoscendosi reciprocamente, senza alcun imbarazzo, i meriti per i risultati asseritamente conseguiti.
Di certuni fra costoro colpiscono la sordità alla logica e la mancanza di immaginazione, là dove, tuttavia, meticolosi e pazienti come formiche fabbricatrici, hanno un modo quasi ingegnoso di elaborare il vuoto intellettuale; una struttura mentale, insomma, che predispone all’intrigo poliziesco, tanto che c’è tra di essi chi ha fatto carriera come cacciatore d’opinioni sospette. Proprio in relazione alle cerimonie inaugurali, per vero ormai da tempo, si stigmatizza come nulla possa giustificare tanta pompa e magniloquenza e si ventila, comunque, che meglio sarebbe, se non sopprimerle, almeno sospenderle fintanto che le cose della giustizia, in questo Paese, non andranno un poco meglio. Scorrendo le orazioni che in questi ultimi anni persone importanti e competenti hanno pronunciato, verrebbe da pensare che le insufficienze degli apparati di giustizia siano determinate da impulsi provenienti da un altro pianeta: le disfunzioni evidenziate, seppure lo siano state, vengono attribuite un po’ al legislatore, un po’ alla burocrazia e, comunque, mai la magistratura censura sé stessa, tendendo piuttosto a tessere gli elogi dei suoi uomini.
Se le cose non vanno bene, infatti, la colpa è di altro o di altri, come la scopertura di organico o addirittura il numero eccessivo degli avvocati. Nei discorsi d’occasione, finalmente, gli «alti magistrati» non mancano mai di sottolineare la necessità di custodire l’indipendenza dell’Ordine giudiziario e di rassicurare circa il massimo impegno di giudici e procuratori per fornire un servizio di qualità, celere, efficiente. Non v’è, tuttavia, chi non veda come, quest’anno, qualche più grave vicenda sarebbe stata degna, non dico di essere dibattuta, ma almeno di essere segnalata da persone di grande esperienza maturata sul campo all’attenzione di chi vorrebbe «sapere», attraverso analisi sincere, responsabili, consapevoli, abbandonando almeno per una volta gli ameni pascoli dell’astrazione concettuale o categoriale o, anche, numerica e statistica.
Il pensiero corre ad esempio all’annullamento, disposto da recenti sentenze del Consiglio di Stato, delle nomine, effettuate nel 2020 dal Consiglio superiore della magistratura, del primo presidente e del presidente aggiunto della Corte di cassazione, che ha aperto a varie questioni, facendo perdere di vista principi fondamentali che invece meritano di essere ribaditi. Non è questa la sede per contestare metodo e merito della reiterazione, da parte del Consiglio superiore, delle nomine annullate, la cui inusitata celerità appare, del resto, comprensibile, dato il momento: come avrebbe potuto aver luogo la cerimonia inaugurale, con una Corte di cassazione acefala? Certo, non si può pretendere che a porre la questione fosse uno dei destinatari degli effetti dell’annullamento, prima, e della reiterazione della nomina annullata, poi, ma, a fronte delle plurime decisioni del Consiglio di Stato nel senso di annullare le nomine a incarichi giudiziari direttivi disposte dal Consiglio superiore, fra cui la clamorosa bocciatura della nomina del procuratore della Repubblica di Roma, qualcuno si sarebbe dovuto interrogare magari sull’idoneità delle regole di funzionamento dell’organo di autogoverno, nonché delle norme che presiedono alle valutazioni che esso deve compiere, per garantire in modo soddisfacente la realizzazione dell’interesse pubblico che deve perseguire.
Né il Parlamento, che di tale normativa è l’autore e che delle necessità di modifiche e aggiornamenti deve farsi carico, né il governo, al cui interno siede il ministro della Giustizia, e prima ancora il capo dello Stato, che del Consiglio superiore è presidente, si son posti il relativo problema. La questione, peraltro, è stata posta, sebbene in termini tutt’altro che esatti, da Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 18 gennaio 2022), secondo il quale, «i rapporti e le competenze di organi di vertice nella architettura dello Stato» meriterebbero maggiore «prudenza», intesa come «ritegno da parte di tutti (che) conta più dell’esito di astratte considerazioni giuridiche, la cui naturale e opportuna elasticità lascia appunto spazio alla prudenza». Prospettazione brutale per un duplice ordine di motivi: innanzitutto, perché l’applicazione della legge non deve arretrare di fronte agli «organi di vertice», quando sia previsto il controllo giurisdizionale sugli atti di questi organi; in secondo luogo, perché l’evidente richiamo a limiti non scritti della giurisdizione proviene da un sostenitore della prevalenza, nello Stato di diritto costituzionale, della giurisdizione stessa. E questo, con buona pace della «legalità», intesa come la massima garanzia di libertà, essendo imposto a tutti il pieno rispetto della legge, che è il vero «strumento del popolo», la cui fonte può stabilire o modificare, direttamente od indirettamente, i diritti fondamentali dei cittadini e le regole di convivenza e di comportamento, ma il cui significato è coniugato secondo il wishful thinking dei suoi aedi.
Esemplare, in questo senso, per restare sui discorsi d’occasione della cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario, il ragionamento del massimo vertice della magistratura inquirente, allorché, «con sguardo severo e grave tuono», ribadito, secondo una ritualità ormai stantia, che «la magistratura non può inseguire il consenso e occorre che la sua azione sia ispirata all’alto insegnamento del presidente della Repubblica: le sue decisioni non devono rispondere né alle correnti di opinione, ma soltanto alla legge», tradendo platealmente, però, subito dopo questo monito del capo dello Stato, allineandosi alla corrente di pensiero più retriva, forcaiola e antilegalista, ha finalmente dichiarato che ergastolo ostativo e regime di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario «non sono carcere duro, ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992».
Non sono più i tempi in cui era, purtroppo, dato assistere a dialoghi del tipo: «Da dove venite, Mademoiselles?», «Mamma, veniamo dall’aver visto ghigliottinare. Oh! Mio Dio, quanta fatica quel povero boia». Tuttavia, mutatis mutandis, il monito conclusivo del procuratore generale della Cassazione, «Chi dimentica la propria storia è destinato a riviverla», soprattutto per il cipiglio con cui queste parole sono state pronunciate, riporta alla memoria una triste vicenda che G. Lenotre, Le Tribunal révolutionnaire, Perrin, Paris, 1908, offre, per dirla con Salvatore Satta (Il mistero del processo, 1949), come un «mistero doloroso» alla contemplazione del giurista: 2 settembre 1792, mentre il tribunale rivoluzionario, costituito da pochi giorni e con al suo attivo soltanto tre teste, giudicava il maggiore Bachmann, della guardia svizzera del re, un’orda di sanculotti eccitati da qualche mestatore, forzava i cancelli, e armata di scuri, di pugnali, di picche, trascinava i prigionieri trovati in mezzo al cortile davanti a un improvvisato tribunale del popolo, facendone orribile scempio.
Con urla disumane, essendo corsa la voce tra la folla inferocita che gli svizzeri del re erano nella sala delle udienze, un’orda di scalmanati, i cenci e le armi grondanti di sangue, era balzata su per le scale e aveva attraversato i vestiboli per comparire sulla soglia dell’aula, determinata a farsi giustizia da sé. Era stato allora che il presidente Lavau, con poche, ma energiche parole, aveva intimato all’orda di massacratori «di rispettare la legge e l’accusato che (era) sotto la sua spada», intendendo dire: «Lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo».
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