Quando il ministro dell’Agricoltura Goria firmò il decreto di commissariamento della Federconsorzi – era il 1991 – si pensò che il crack della holding verde avrebbe travolto anche Coldiretti su cui pesavano le maggiori responsabilità politiche del dissesto.

L’anno successivo arrivò il ciclone di Mani pulite che dissolse la Dc e il Psi. E molti pensarono che con la “Balena bianca” sarebbe scomparsa anche la principale organizzazione agricola italiana: questa, infatti, per 50 anni era stata una sorta di “partito contadino” associato alla Dc. Ma, nonostante la crisi di rappresentanza dell’agricoltura nazionale che si manifestò con la vittoria delle regioni che chiedevano di abolire il ministero di via XX settembre al referendum del 19 aprile 1993 (i Sì raggiunsero il 70%) e, negli anni successivi, con la rivolta dei “cobas del latte”, Coldiretti sopravvisse, anzi subì una vera e propria metamorfosi. Diventò la portabandiera del mito bucolico della decrescita felice, l’ostinata nemica degli organismi geneticamente modificati (Ogm) additati spregiativamente come “cibo di Frankenstein”, la rappresentante più radicale del localismo egoistico e del nazionalismo autarchico, l’antagonista più agguerrita delle multinazionali, l’avversaria pregiudiziale di ogni accordo internazionale di libero scambio dei prodotti agricoli. Sostituì gradualmente l’adesione alla vecchia dottrina sociale della chiesa con l’adozione di un’ideologia reazionaria per dettare la linea a governi privi di programmi agricoli. Non avendo più una visione generale della società, imparò a modulare il proprio discorso pubblico a seconda degli interlocutori senza preoccuparsi minimamente di cadere in contraddizione o assumere posizioni paradossali.

Coldiretti fu agevolata in questa evoluzione dai governi di centro-sinistra degli anni ‘90. Il secondo governo D’Alema approvò la legge 28 ottobre 1999, n.410, recante “Nuovo ordinamento dei consorzi agrari”. La Federconsorzi, a seguito della esecuzione del concordato preventivo in corso, veniva sciolta e si stabiliva che i consorzi agrari erano cooperative a responsabilità limitata. Coldiretti riattivò così un gruppo di consorzi agrari e riprese, con una flotta ridotta, il percorso che si era bruscamente interrotto. Il provvedimento è emblematico di come gli eredi delle principali culture politiche del secolo che stava per chiudersi intendevano il rapporto tra Stato e mercato. In realtà, essi rifiutavano il mercato perché consideravano assai più comodo lo Stato del mercato. Così lo Stato non stimolava il mercato, al contrario lo impigriva e lo addormentava. Peggio: finiva per consacrarne gli squilibri, senza generare sviluppo. E questa concezione riguardava sia i “pagamenti diretti” della Pac che la maggior parte degli interventi nazionali in agricoltura. Di tale mentalità era intrisa sia la classe politica che la vecchia tecnostruttura statale. Per abbattere tale modo di pensare ci sarebbe voluta una nuova classe dirigente. Ma i partiti e i governi dell’epoca non vollero, per propria scelta, promuoverla.

Il direttore di questo giornale era all’epoca capo staff di D’Alema a Palazzo Chigi e ha, recentemente, così spiegato tale comportamento: «Quei governi e quei partiti avevano il problema di confermare o completare un percorso di (re)insediamento o di legittimazione a governare, e non avevano alcun interesse a provocare traumi dentro una burocrazia peraltro già largamente espressione dei partiti-cardine della cosiddetta “prima repubblica”. Si ponevano, quindi, più o meno esplicitamente, in una posizione di continuità rispetto al passato». La scelta continuista costituì, dunque, un freno letale al rinnovamento necessario del sistema Italia, la cui stagnazione strutturale cominciò proprio in quegli anni. E come ha osservato Velardi «proprio verso la fine degli anni ‘90 si sviluppa nell’opinione pubblica la percezione di un crescente conservatorismo della sinistra, di un suo appiattimento sulle posizioni delle cosiddette élites». Insomma, la sinistra era passata dall’essere descritta come inaffidabile e non spendibile sul piano del governo, addirittura non legittimata a farlo, ad essere percepita come la paladina dello status quo. Ancora oggi questo è il marchio che la identifica. I populismi del Duemila si sono avvantaggiati dell’incapacità della sinistra di scrollarsi di dosso questo stigma.

Coldiretti, invece, seppe bene approfittare di questa caratteristica della sinistra. Al tempo del governo Amato, strinse infatti un patto di ferro con il ministro delle Politiche agricole, il verde Pecoraro Scanio. Gli metteva a disposizione un’infrastrutturazione di prim’ordine, fatta di mobilitazione e comunicazione e, in cambio, chiedeva via libera per elaborare da sola – senza coinvolgere più di tanto le altre due organizzazioni agricole – i provvedimenti agricoli. Coldiretti ha poi sperimentato lo stesso potere d’influenza coi governi successivi, indipendentemente dal loro colore politico. Oggi i suoi rapporti con Fratelli d’Italia sono molto simili a quelli che, ai tempi di Bonomi, intratteneva con la Dc. Se gli elementi di debolezza strutturale dell’agricoltura nazionale, nonostante le vorticose trasformazioni, si sono conservati intatti in questi 80 anni, lo si deve alla sostanziale continuità delle relazioni perverse che Coldiretti ha intrecciato coi partiti di governo e con lo Stato. Una debolezza, quella agricola, derivante, dunque, dal deficit di liberalismo della democrazia italiana.

Alfonso Pascale

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