Giustizia
La mimosa avvelenata, il ddl femminicidio e la disposizione infelice: quando l’obiettivo è solo nominarlo nel codice penale

“Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”, ha scritto Cristina Torre Cáceres, artista e attivista peruviana, per la morte di Mara Castilla uccisa in Messico, a soli 19 anni, da un taxista. Parole, queste, divenute simbolo della lotta contro la violenza di genere e recitate spesso, dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, dalle giovani scese in piazza per dire che Giulia doveva essere l’ultima (così, purtroppo non è stato), rivendicando per sé stesse un ruolo non marginalizzato a quello di vittima. Ho pensato, in quei giorni terribili, che qualcosa di profondo si stesse muovendo. Un moto di autocoscienza collettivo che finalmente erodeva le maglie strette del paradigma vittimario, sostituendo il minuto di silenzio in minuto di rumore. “Non siamo vittime”, si leggeva in molti manifesti. Anche gli uomini direttamente coinvolti in quella tragedia hanno fatto la loro parte. Il padre di Filippo Turetta, lo zio e il padre di Giulia Cecchettin, hanno espresso parole diverse, di reciproca empatia, di responsabilità. Perché, se accade che il bravo ragazzo, insospettabile finché non estrae un coltello, brutalmente uccide la compagna che vuole lasciarlo, occorrono gesti di responsabilità collettiva. Degli uomini soprattutto spesso intenti a mostrificare chi compie violenza nel tentativo di rubricarla a follia di uno. I numeri raccontano, invece, che questo è fenomeno strutturale. Evocano, ha scritto Ida Dominijanni, l’idea “di un patriarcato ferito e vacillante”.
Non abbiamo bisogni di ergastoli
Occorrono, allora, parole nuove, non nel codice penale, ma nella società, per decrittare un problema prima di tutto culturale, politico, uscendo il prima possibile dalla logica stantìa del binomio vittima-reato che appalta al diritto penale massimo la soluzione di una piaga che resta viva e vegeta, nonostante le garanzie processuali siano state ridotte al lumicino. Non abbiamo bisogno di ergastoli, di interventi muscolari, come quello del ddl sul femminicidio, presentato a fanfare spiegate col solito trionfalismo di chi raccatta consenso col pugno “maschio” del diritto penale di lotta. Alla vigilia dell’8 marzo, poi! Giusto per ricordarci che al Governo stanno a cuore le sanzioni, non le donne. Che si occupa, maldestramente, di noi quando moriamo, non quando dobbiamo farci a pezzi per gestire lavoro e carico familiare; non quando firmiamo dimissioni in bianco per gravidanza; non quando guadagniamo meno degli uomini; non quando siamo usate per riempire l’unico posto riservato alle quote rosa; non quando il nostro nome compare sulla lapide dei cimiteri dei feti.
Una deresponsabilizzazione
Una mimosa avvelenata, quella del ddl: una deresponsabilizzazione, a costo zero (come il Codice Rosso e la Legge Roccella), che risponde più al grido del buttiamo via la chiave (in celle fatiscenti, scandalo di un paese che se ne infischia dei numerosi morti suicidi nelle patrie galere) che non alla necessità di fare davvero qualcosa di utile – di preventivo – per impedire che le donne muoiano ammazzate. Qualcosa che restituisca senso e dignità alla Politica, con la P maiuscola, lasciando perdere l’egemonia del diritto penale simbolico. Non vi è nessuna evidenza scientifica sulla funzione deterrente dell’ergastolo (o più in generale dell’aumento delle pene) per gli autori di questi di reati. Si sa, non sono infrequenti i casi di omicidio–suicidio e non esistono calcoli razionali di costi-benefici quando si usa violenza contro una donna. Uccisa non in quanto donna, ma in quanto “mia”.
Le donne continuano a morire e la disposizione è infelice
Le donne continuano a morire nonostante gli aumenti di pena. A tacer, poi, dell’incostituzionalità manifesta di una norma che nel costruire una gerarchia di vittime tradisce il principio di uguaglianza e consegna al già lungo elenco dei reati di questa legislatura quello di femminicidio, ammantandolo di concetti astratti e roboanti senza alcuna definizione. Cosa diavolo vuol dire il legislatore quando intende punire con l’ergastolo chi cagiona la morte di una donna per reprimere l’espressione della sua personalità? Determinatezza del precetto penale, questa sconosciuta. Che importa: la protezione delle vittime esige lo scalpo del carnefice trasformando la giustizia, per come l’abbiamo intesa dalla Costituzione in avanti, in un privato regolamento di conti che mette in sordina persino la funzione giurisdizionale, non più pubblica ma s’il vous plait. Se la vittima non gradisce la pena patteggiata, il giudice dovrà motivare le ragioni della sua tracotanza, spiegare perché non ha assecondato l’idea di pena della parte privata. Del resto, sembra di sentirli, siamo in guerra e la legge è quella marziale. Anzi no, quella resuscitata dal classico strumentario della lotta alla mafia, terreno privilegiato di numerosi escamotage securitari buoni per legittimare vere e proprie sospensioni delle garanzie processuali. A dirlo è il Libro bianco per la formazione sulla violenza contro le donne del Dipartimento per le pari opportunità. “È auspicabile – si legge – che il femminicidio […] diventi un delitto a sé perché, come accaduto con l’approvazione dell’art. 416-bis (l’associazione a delinquere di stampo mafioso, ndr) (…) lo Stato, in tutte le sue articolazioni, decise di definire quel complesso fenomeno, con le sue peculiarità, opponendovisi, innanzitutto, attraverso l’attribuzione di un nome”. Nominare il femminicidio nel codice penale, questo è lo scopo, per combatterlo come la mafia. Non fatelo in nostro nome.
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