Lo stemma di un serpente avvolto intorno a un’ascia su sfondo azzurro e nero, più di 800 morti tra attentati e autobombe. Era il 1959, quando, dalla scissione dal Partito nazionalista basco, un gruppo clandestino di studenti in opposizione al franchismo fondò l’Eta (Euskadi Ta Askatasuna, ovvero “Paese basco in libertà”), organizzazione terroristica per l’indipendenza basca di ispirazione marxista-leninista, attiva fino al 2018. Ricercando la propria identità nella leggendaria euskera, ovvero la lingua basca, l’unica a essere sopravvissuta quattromila anni fa, anche dopo l’arrivo degli indoeuropei, nel secolo scorso l’Eta irretì orde di giovani desideranti di riconoscersi in un ideale estetico, eroico, prima ancora che politico.

Sull’interesse intorno al peso di una libertà ereditata con violenza dagli attentati dell’Eta è costruito La mischia (ed. Bollati Boringhieri), uno degli esordi alla narrativa di maggior pregio degli ultimi tempi, scritto dalla giovane bolognese, Valentina Maini, edito da Bollati Boringhieri. Gorane e Jokin Moraza, figli di terroristi dell’Eta, sono due gemelli venticinquenni, colpevoli di delitti cruenti, che si rincorrono tra Bilbao e Parigi in fuga da ossessioni disperanti. Poderoso volume e scrittura insolitamente consapevole per un romanzo di un’esordiente, La mischia si apre in una dimensione onirica, dallo stile spigoloso, repulsivo, che traccia i confini psicologici di Gorane, affetta da allucinazioni, disturbi ossessivo-compulsivi e da una severa disciplina autoindotta, volta alla sottrazione dal cibo, dal rumore e dallo sporco. In modo speculare, il fratello gemello, Jokin, “il ragazzo con gli occhi e le vene bucati”, imita passivamente la militanza dei genitori nell’Eta, assorbe tutto il calore dalle droghe e l’arroganza dalla solitudine, macinando vendetta nella doppia dipendenza dalla musica e dall’eroina.

I gemelli, così cari alla tradizione letteraria, dalla commedia plautina, poi shakespeariana fino alla Trilogia di Kristóf, sintetizzano ne La mischia quel desiderio di patria e identità del popolo basco, che solo qualche anno fa Fernando Aramburu aveva lucidamente impresso nel romanzo intitolato Patria. Tuttavia, Maini ragiona sulle architetture sentimentali dei figli di quella generazione politica, costruite intorno a un’educazione fatta di esposizione continua all’ideologia separatista, all’esercizio della violenza di una libertà incondizionata. Innestata sui due cardini elettivi di “passione e ardore”, la formazione culturale dei gemelli Moraza soffre l’imposizione dall’alto nel discernimento del bene dal male, senza emancipazione, e la mutazione della famiglia da perimetro di accoglienza a campo di prova.

«Jokin è la nostra bandiera e Gorane la nostra voce», l’io collettivo dei due genitori, che coincide con l’indipendenza sovversiva della comunità basca, indottrina le nuove leve mediante il feroce “gioco della perdita”, ossia l’abitudine alla separazione volontaria da tutti quegli oggetti dell’infanzia che i Moraza avevano più cari. Non c’erano altre regole in casa, ad eccezione del motto della bandiera dell’Eta, Bietan jarrai, ovvero ‘perseguire entrambi’: la sola cosa da preservare era la libertà; la sola cosa nella quale perseverare, la lotta. Maini sembra dunque suggerire che esercitarsi nella pratica dell’abbandono corrisponda alla disponibilità coatta che ognuno ha di perdersi, di concedere a chi si ama la possibilità di consumarsi e distruggersi nelle droghe e negli idoli.

La mischia è un romanzo polifonico di voci ingannevoli, nel quale si alternano narratori in prima e terza persona – notevole, in particolare, l’uso sapiente di una rara terza persona plurale-identitaria, che presta la voce ai genitori terroristi e alla loro aderenza ai concetti di patria e libertà – ; un romanzo postmoderno che fa saltare le griglie sintattiche e i segni di interpunzione, in cui agli escamotage metanarrativi, sul modello delle scatole cinesi, si succedono i pettegolezzi comparsi nei verbali dei commissariati di polizia parigina, referti psichiatrici inattendibili, lettere di editori infastiditi da una scrittura borghese ormai imperante, dialoghi tra spacciatori, fantasmi, domestiche e cartomanti.

Valentina Maini ha registrato le pause ritmiche e gli intercalari enfatici di coloro che l’hanno circondata a Bologna e a Parigi, i luoghi che ha vissuto, mischiandoli ai tic, alle percezioni umane dal dentro e dal fuori della struttura psichica propria dei gemelli. L’introspezione nella duplicità di Jokin e Gorane ha offerto alla narratrice l’occasione di muoversi sui piani della contraddizione correlata ai nazionalismi, alla loro portata rivoluzionaria e al rovescio della medaglia, la brutalità della loro giustizia, le violenze mai sanate inflitte alla Storia.