Accusata di caporalato tra i titoloni: era innocente
“La moglie sfruttava i braccianti, anzi no”. Giravolta del gip ma intanto il prefetto Michele Di Bari si è dimesso…
Tutto finto. Non era vero nulla. L’indagine nei confronti di Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie dell’ex capo del dipartimento Immigrazione e le Libertà civili del Ministero dell’interno, il prefetto Michele Di Bari, è il classico buco nell’acqua. L’accusa di essere stata al vertice di una associazione finalizzata allo sfruttamento della manodopera clandestina si è sciolta come neve al sole. L’incredibile giravolta questa settimana con il gip Margherita Grippo che ha revocato il suo precedente provvedimento con cui disponeva l’obbligo di dimora per l’imprenditrice.
L’inchiesta “Terra rossa” era stata presentata il mese scorso in pompa magna dai carabinieri e dai pm di Foggia che avevano indagato 16 persone, di cui due in carcere e tre ai domiciliari. Coinvolte una decina di aziende agricole, fra cui proprio la Agricola Bisceglia Ss di cui la moglie del prefetto era amministratrice. Se una azienda agricola aveva bisogno di manodopera a basso costo, era la tesi degli inquirenti, si rivolgeva a due extracomunitari, un gambiano e un senegalese, che vivevano in una baraccopoli alle porte della cittadina pugliese. I due “intermediari” si sarebbero quindi occupati di reclutare i braccianti e di trasportarli sui campi di raccolta. Per queste attività avrebbero percepito una provvigione.
Nell’ordinanza di oltre cento pagine, la gip Grippo aveva ricostruito con parole durissime gli accordi della moglie del prefetto con gli intermediari africani. Rosalba Livrerio Bisceglia sarebbe stata “consapevole delle modalità delle condotte di reclutamento e sfruttamento”. I dialoghi fra i due, oggetto di intercettazione, «costituiscono dati univoci del ruolo attivo di Bisceglia nella condotta illecita di impiego e utilizzazione della manodopera reclutata, in quanto rivelano una preoccupazione e una attenzione per la regolarità dell’impiego della manodopera solo successiva ai controlli». La donna, poi, «si occupava dell’assunzione della manodopera, attività che peraltro svolgeva senza conoscere direttamente i braccianti e sulla sola base dei documenti» che le forniva il caporale.
Le buste paga rinvenute, sempre per gli inquirenti, non erano veritiere poiché vi venivano indicate un numero di giornate lavorative inferiori a quelle realmente prestate dai lavoratori, senza tener conto dei riposi e delle giornate di ferie. Il quadro che emergeva era, dunque, di un sfruttamento consapevole modello Alabama nel 1800.
Per non farsi mancare nulla, l’imprenditrice avrebbe anche violato “reiteratamente” la normativa di settore “relativa all’orario di lavoro ed ai periodi di riposo”, in quanto i lavoratori erano impiegati «nelle attività di coltivazione dei campi senza riconoscere loro la retribuzione per l’orario di lavoro straordinario, senza pause e senza consentire l’utilizzo di servizi igienici idonei». Uno scenario di “assoluto disinteresse” per il rispetto delle norme poste a tutela del lavoro, “come se i braccianti fossero di “proprietà”. «Caporali, titolari e soci delle aziende avevano messo in piedi un apparato quasi perfetto», avevano precisato i carabinieri. «Nulla veniva trascurato», dissero i militari ai giornalisti, ricordando i vari step: individuazione della forza lavoro necessaria per la raccolta nei campi, reclutamento, pagamento in modo palesemente difforme rispetto alla retribuzione stabilita dal Ccnl, nonché dalla tabelle per gli operai agricoli a tempo determinato della provincia di Foggia.
Purtroppo non era vero nulla. La donna, interrogata dal gip, ha prodotto copiosa documentazione da cui emerge che i braccianti, pagati tramite bonifici, percepivano compensi rispettosi del contratto nazionale di lavoro e in linea con tutti gli standard di settore. «Desidero precisare che sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie, insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati», aveva affermato Di Bari appresa la notizia dell’indagine a carico della consorte, presentando le dimissioni dall’incarico con effetto immediato. Di Bari era stato prefetto di Vibo Valentia, dal 2012 al 2013, e di Modena, dal 2013 al 2016, e di Reggio Calabria fino al 2019. Dal 14 maggio 2019, su indicazione di Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno nel governo Conte Uno, era stato nominato capo del dipartimento al Viminale.
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