Avrei voluto scrivere un articolo su come il VAR, strumento tecnologico dato per insindacabile e impersonale, oggettivo e chirurgico, possa essere diventato l’oggetto determinante di ogni polemica e discussione sulle partite di calcio. Peggio di quando si metteva in croce solo l’arbitro di turno… Oppure avrei voluto dire che il tifo rende stupidi, parlando di quegli ultras del Maccabi che hanno strappato alcune bandiere palestinesi. Ma questo rinnovato sentimento antisemita che si aggira per l’Europa, e la caccia all’ebreo di Amsterdam, hanno travalicato ogni possibile ragionevole discussione.

Eppure non basta mettere in mostra i dati della cronaca, quanto partire da un sistema che asseconda spesso la violenza, cioè proprio il calcio in quanto sport amato in tutte le zone povere della Terra – spesso vediamo che l’unica maglietta indossata da ragazzi in Medio Oriente, nelle favelas, nelle periferie delle capitali africane è quella di un calciatore famoso. È lo sport forse più diffuso a livello planetario. Si gioca a calcio in Africa, in Asia, nelle Americhe, nel Medio Oriente, per non parlare dell’Europa. Tanti giocatori dei più importanti campionati al mondo (inglese, spagnolo, italiano, tedesco) vengono dalle province dell’impero calcistico, come accadeva una volta per i gladiatori a Roma. E i paesi arabi spendono da qualche anno una montagna di soldi per avere giocatori di prestigio nei loro campionati ancora minori.

Solo in Europa, tra Champions, Europa League e Conference League abbiamo oltre 100 squadre partecipanti, di cui una parte si divide premi per circa 1 miliardo e mezzo di euro. Pensiamo quindi a quanto più alto è il giro di soldi dell’UEFA. Ma questi soldi servono anche a rendere più decenti gli stadi? Servono a fare delle società calcistiche anche società ben gestite e controllate? Servono a impedire la violenza degli ultras? O il calcio è ancora collettore e stimolatore di istinti primordiali?

Stadi e società calcistiche

Delle attuali squadre di Serie A, soltanto tre hanno lo stadio di proprietà (Atalanta, Juventus, Udinese), il resto vivacchia dentro impianti comunali. Una roba novecentesca! In Spagna sono 16 le squadre con stadio di proprietà, in Inghilterra 15, in Germania e Scozia 9, 8 in Olanda, 7 in Belgio e Irlanda, 4 in Portogallo e Svezia. Avere uno stadio di proprietà significa avere un’azienda che deve far quadrare realmente i conti, oltre a dare lavoro a tanti dipendenti; significa avere margini economici e aziendali per investire, invece di club gestiti in economia con bilanci fasulli, vicini spesso al fallimento, come hanno dimostrato più volte in questi anni tante squadre, anche importanti. La maggior parte dei club di calcio italiani giocano in stadi comunali, per cui non pagano parte dei costi che restano spesso a carico delle municipalità, cioè della tassazione ordinaria di tutti i cittadini. Questo è giusto? O sarebbe meglio che squadre gestite apparentemente in maniera manageriale potessero disporre di bilanci solidi ed entrate certe e non gravare sulle spalle dei cittadini?

Il calcio degli ultras

Molti penseranno comunque che il calcio, che è un fatto eminentemente sportivo (nel senso di De Coubertin) e popolare, abbia ancora le fattezze del “vinca il migliore”, e non si adegui esclusivamente al dio denaro. Benissimo! Ma oggi, anche se non ci fosse questo enorme giro di affari della UEFA, non è forse col denaro (posseduto o dichiarato) che si vincono, più o meno, i campionati? Altri penseranno sia immorale che una squadra di calcio non rappresenti la propria città, la propria bandiera, la propria maglia, il proprio quartiere, la propria identità e con essi il proprio razzismo, i propri campanili, le curve degli ultras, le botte e le guerriglie tra tifosi. Ma non sarebbe invece il caso di dare maggiore spazio allo sport come entertainment, invece che alle gabbie mentali dell’avversario come nemico? Sono insopportabili ormai gli stadi delle curve identitarie e politicizzate che hanno sempre dato luogo ad appartenenze troppo “sfegatate”, producendo anche fatti tragici con gente ammazzata e diffusione di bieco razzismo.

Gli androidi di Bilal

O il calcio diventa uno sport maturo, cioè diventa uno spettacolo dal vivo di appassionato intrattenimento, oppure potrebbe diventare soltanto un gioco senza spalti, senza spettatori dal vivo, senza tifosi, senza palla. In questo senso può essere interessante andare a ripescare dall’oblio il libro a fumetti Fuori Gioco con soggetto e tavole disegnate da Enki Bilal e la sceneggiatura di Patrick Cauvin. In questa storia si parla di un futuro non molto lontano, in cui nell’anno 075 (di una prossima imprecisata era) gli organismi dirigenti decisero di sopprimere il pallone e gli spalti dai campi di calcio. Da quel momento l’entrata di un giocatore col suo corpo dentro la porta avversaria era il gol. Il nome del calcio scomparve e gli androidi cominciarono a giocare con gambe elettroniche e parti umane insieme.

La storia è raccontata in prima persona dal vecchio giornalista Stan Skavelicz, che è incaricato dal canale video Delta Work 3 di raccontare “La morte del calcio”, dopo che il canale ha già realizzato “La morte del cinema” e “La morte della musica”, cioè una sorta di format per spiegare come e perché scompaiono i fenomeni di massa agiti dal vivo. Non male questo Bilal. E nemmeno il personaggio di Stan Skavelicz, al quale potremmo affidare noi stessi un nuovo incarico giornalistico: “la morte dell’antisemitismo”.

Alessandro Agostinelli

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