L’interrogatorio di garanzia di Mariano Cannio, il domestico della famiglia Gargiulo accusato di aver preso in braccio il piccolo Samuele e di averlo lasciato cadere giù dal balcone, ha aggiunto a questa tragedia particolari che sicuramente attireranno clamore mediatico, bulimia informativa, spettacolarizzazione e condivisioni social.
Cannio, per il quale il gip di Napoli ha disposto ieri la convalida del fermo, ha ammesso di aver preso Samuele in braccio e di averlo lasciato cadere nel vuoto, dal terzo piano. Quel venerdì mattina, come altre mattine, stava facendo le pulizie in casa Gargiulo. Il piccolo Samuele gli aveva chiesto aiuto per raggiungere il pensile della cucina dove c’erano le merendine e Cannio lo aveva preso in braccio. Samuele gli aveva raccontato che sarebbe andato a giocare a calcio nel pomeriggio e lui, il domestico, gli aveva detto di fare tanti goal. Poi, sempre tenendo il piccolo tra le braccia, si era diretto verso il balcone. «Perché avevo udito delle voci provenire dalla strada», ha raccontato. A quel punto si è sporto e ha lasciato cadere il bambino. «Era sveglio, non ha urlato», ha aggiunto. Perché? «Ho avuto un capogiro», ha ammesso Cannio come a dare un movente. Ma per gip e pm non basta ad alleggerire la situazione. «Racconta con precisione le fasi precedenti e successive la tragica morte di Samuele», sostengono gli inquirenti.
E proprio il racconto di quello che Cannio ha detto di aver fatto dopo il volo nel vuoto di Samuele aggiunge particolari che si prestano ad alimentare dibattiti talk show sulla banalità del male e a moltiplicare le condivisioni e l’indignazione social. Dopo il tonfo, «ho udito delle urla provenire dal basso, mi sono spaventato e sono fuggito dalla casa – ha ammesso l’indagato – Sono andato a mangiare una pizza nella Sanità, avevo una fame nervosa. Poi ho fatto ritorno nella mia abitazione, mi sono steso sul letto e ho iniziato a pensare a quello che era accaduto. Sono sceso e sono andato in un bar di via Duomo a prendere un cappuccino e un cornetto, poi sono rientrato a casa dove la polizia mi ha trovato». Ecco la verità di Mariano Cannio, tragica e assurda al tempo stesso. Una storia che non dovrebbe ispirare solo clamore e sciacallaggio mediatici, ma anche più serie riflessioni. Da parte di tutti. E a partire, forse, da come viene gestita la delicata questione legata al trattamento delle persone con problemi di salute mentale sia dentro che fuori al carcere.
Mariano Cannio, 38 anni, da ieri è in cella. «Essendo emerso dagli atti a disposizione il fumus di una infermità psichica, deve disporsi l’assegnazione del detenuto all’apposita sezione speciale dell’istituto per infermi e minorati psichici», ha deciso il gip escludendo per l’indagato qualunque altra misura «alla luce dell’estrema gravità del fatto commesso». «La custodia in carcere si ritiene, inoltre, proporzionata alla pena che potrebbe essere irrogata all’esito del giudizio» ha motivato il gip Valentina Gallo, convalidando il fermo dell’indagato. Quanto alle patologie psichiatriche dell’uomo evidenziate dalla difesa (avvocato Mariassunta Zotti), il giudice ha annunciato una perizia psichiatrica nel prossimo futuro ma non ha ravvisato al momento elementi per valutare Cannio incapace di intendere e di volere.
In carcere, quindi, Cannio sarà recluso nella sezione di Poggioreale dedicata ai detenuti con problemi di salute mentale e «la direzione della casa circondariale provvederà a eseguire una costante attività di osservazione e monitoraggio delle condizioni di salute psichica dell’indagato». Cannio ha raccontato di essere in cura presso il centro di igiene mentale di via Santa Maria Antesaecula. «Questo mese mi è stata somministrata la dose prevista», ha affermato ammettendo di non aver informato i Gargiulo dei suoi problemi di schizofrenia. Venerdì mattina, come altre mattine, si era presentato a lavoro nella casa di via Foria puntuale alle 9,15. Dopo tre ore, la tragedia.