La morte è un problema politico? La risposta è sì, tenuto conto che l’atto di nascita della politica poggia sulla differenziazione originaria che ha visto prevalere un principio paterno, svincolato dalle leggi della vita materiale, sulla maternità rimasta a rappresentare la componente carnale dell’uomo, il nascere e morire degli altri esseri viventi, come scrive Johann Jakob Bachofen. Rileggo alcuni scritti, i meno conosciuti di Rossana Rossanda, pubblicati nel libro Anche per me (Feltrinelli 1987) e negli anni Novanta sulla rivista Lapis, e resto ancora una volta sorpresa che sia stata una donna, “invasa” come dice lei stessa dalla politica e gettata dalla guerra sull’ “orizzonte smisurato della storia”, a sottrarre alle acque insondate della persona il corpo e l’inquietudine che getta sull’io la sua finitezza.

«La fonte del dolore, il chiodo della Crocifissione: questo sta assai più profondamente infitto nell’inquietudine dell’io (…) Siamo finiti, perimetrati, conclusi nel tempo come nell’estensione della nostra mente. Non è drammatico nel senso di sofferente, è tragico nel senso di inesorabile». Al di là dei modi diversi con cui avviene questa presa d’atto, di coscienza, aggiunge Rossana, «essa sta in tutto quel che scopro dell’uomo e della donna e che posso chiamare anche il neutro della specie, perché è su questa comune condizione che è stato effettuato un antico atto di dominio di un sesso sull’altro, e poi costituito un decalogo della differenza». Alla donna che avrebbe voluto sapere tutto “del tempo che ci è dato”, compreso il giorno della sua morte, cambiare tutto, non rassegnarsi a nessuna forma di predeterminazione, non poteva passare inosservata la politicità, che il femminismo veniva riconoscendo, di quel “rimosso” secolare su cui si è costruita la nostra storia. Sorprendente era per Rossana che la materialità di cui è fatta la vita fosse rimasta così a lungo un interdetto, un “impensato”.

«Per essere così vicino, il corpo è in assoluto la zona di conoscenza meno frequentata. Mi limito a constatare che da sempre la conoscenza del corpo, che in linea logica dovrebbe essere il primo è più interessante oggetto di esplorazione, è quasi magicamente precluso. Il corpo nasce, invecchia e muore e noi nasciamo, invecchiamo con lui: “con”, come se fosse altro da noi. Lo sentiamo come qualcosa di esterno/interno. Invecchiamo, ci ammaliamo, moriamo nostro malgrado: è lui, il corpo, che mi trascina nei suoi ritmi, programmi, disastri». “Tragico”, per Rossana, significava non drammatico e lacrimoso, ma di “rara soluzione” e “di molta perdita” e, soprattutto, il dover vivere evitando di pensare alla morte o vivere una finitezza che ti nega. La verità ultima del corpo è quella che segna, all’origine, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e che finisce sepolta sotto quei “disastri” della storia che sono le ingiustizie, le illibertà che vengono da necessità imposte dal potere, dal denaro, «da tutto ciò che ti fa essere oggetto di scelte altrui».

«Io credo che gli esseri umani sono uguali, perché a che cosa è comparabile una vita se non a se stessa, al suo arco breve? E non tollero che non abbiano gli stessi diritti di gestire la nostra sorte e la nostra intrinseca, non coatta, liberatoria diversità…». A fronte del suo “luciferino” bisogno di vivere nel mondo, nell’incontro/scontro con l’altro, sentendosi un “frammento parlante di una storia comune”, il polo che la storia ha creduto di consegnare alla natura, al destino della donna e alle esperienze più universali dell’umano, considerate paradossalmente “private”, si impone a Rossana con una evidenza e complessità nuove, anche rispetto al femminismo. Se è difficile muoversi tra il “profondo” e la “storia”, affrontare la lacerazione che passa dentro di noi, tra quello che siamo e i modelli incorporati che altri ci hanno imposto, sopportare la “perdita di senso” e di potere sul nostro destino, impossibile è pensare a quel corpo che “ti ammazzerà”, «come un killer che se ne va per strada e quando ti incontra ti spara».

Attenta a ciò che differenzia la percezione del corpo per l’uomo e per la donna, per lui il “fare”, per lei l’ “apparire”, Rossana che amava definirsi «una in un pieno di uni e une», non poteva nascondersi il fatto che per entrambi i sessi il corpo è “intrigante”, e la sua finitezza ragione di profonda inquietudine. A confronto di tante “illibertà” che ci assediano dall’esterno e dall’interno di noi stessi, ma che potrebbero essere rimosse, sta la consapevolezza “tragica” che la materia di cui è fatta la vita ci detta i suoi ritmi e la sua legge, anche se è proprio da questo confine ultimo che la vita sembra ritrovare il suo “suono più autentico”. La rimozione del corpo e della morte, del tempo breve che ci è dato di vivere, ha portato con sé non solo l’esclusione delle donne dal governo del mondo, ma anche la mutilazione della politica riguardo a quei “tesori di cultura”, legati alla persona, alla memoria, all’essere sessuati, che avrebbero potuto intaccarne a fondo la separatezza e l’illusoria onnipotenza.

«Duro, ma adulto sarebbe riconoscere che la condizione dell’uomo, appeso tra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forma e missione non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma (soltanto!) liberarlo dalla intollerabilità dell’ingiustizia».