Nel Sì & No del giorno del Riformista spazio al dibattito sulla mostra dedicata a Tolkien. È una strumentalizzazione? Ne discutono con le loro tesi Mario Lavìa e Runa Bignami.

Di seguito il commento di Mario Lavia

Se la costruzione di una egemonia culturale di destra poggia sulla celebrazione di un profeta dell’antimodernità siamo (sono) messi male. La mostra-monstre di Tolkien è anche una buona idea – tutto va bene se si tratta di far conoscere i grandi scrittori – ma fatta così, con questo tono di rivendicazione identitaria ai limiti del culto zdanoviano, si presta a qualche critica, e pure pesante. Qui non si vuole tanto insistere sulla parata che ha visto la premier, ministri, presidente del Senato e tutta la compagnia di Fratelli d’Italia sfilare alla Galleria d’arte moderna di Roma, propaganda da realismo socialista (tiè), quanto sul senso più profondo dell’operazione melonian-sangiulianesca: una esibizione di memoria, una evocazione del “come eravamo” quando si era giovani e reietti nel buio di una controcultura stranamente adiacente a quella dell’estrema sinistra, o meglio, dell’area post-esistenzialista detta sbrigativamente “hippy”. Il recupero in pompa magna di uno scrittore senz’altro di grande rilievo campione di una ideologia letteraria reazionaria – in senso tecnico, come reazione alla modernità – mal si concilia con i propositi politici di un anelito ad un domani diverso dall’oggi, ché si presume che la destra al potere nutra questa ambizione. Tolkien, dunque, cosa c’entra? Intendiamoci: lo scrittore inglese non è, sic et simpliciter, né di destra né di sinistra, ma è un fatto che la sua potente evocazione della Tradizione, della terra, del sangue, della patria, della spada, di un passato non misurabile ha affascinato quella parte politica che crede che “le radici profonde non gelano/rinascerà un fuoco dalle ceneri/l’ombra sprigionerà una scintilla” (dalla famosissima poesia contenuta nel X capitolo della “Compagnia dell’anello”): la forza del passato come quella del “vecchio che è forte non s’aggrinza” che scaldò trent’anni fa il cuore dell’ultima generazione – si può dire? – fascista.

Quella strofa, “le radici che non gelano” divenne addirittura uno slogan che apparve su dei manifesti di Pino Rauti e più recentemente di Forza nuova: le radici di un mondo fantastico, rurale ed eroico, di contro evidentemente al Progresso, alla Ragione, alla Società. Ma come impatta questa geniale cosmogonia al tempo stesso pre-fantasy e impastata di medioevo con l’aspirazione a costruire il XXI secolo? Si dirà che nessuno scrittore è inutile, ed è sufficientemente vero. Ma da qui a innalzare sull’altare della costruzione di un’egemonia ce ne passa. Grande scrittore, Tolkien, non sarà Shakespeare e nemmeno Thomas Mann, ma è quello che di meglio la destra ha sulla sua bancarella, che diciamo la verità non occupa tanto spazio.

E si tocca qui inevitabilmente un punto diciamo così psicologico della destra italiana: il complesso d’inferiorità rispetto al grande racconto della sinistra (e anche alle vette filosofiche delle culture europee, quella liberale e quella cattolica), cioè quel tic che a destra puntualmente scatta ogniqualvolta parlano di “loro”, cioè dei “comunisti” che dalla Rivoluzione francese lungo mille strade costruirono miti, riti, Pantheon, successi, personaggi, film, romanzi, commedie, tutto un mausoleo che ha sempre suscitato l’invidia e la rabbia di una destra che non è che non avesse nessuno da esibire ma nulla di paragonabile a ciò che avevano “loro”.

Adesso che è venuto il momento buono si tratta di innalzare se non cattedrali almeno qualche altarino, tipo il buon Prezzolini, e qualche chiesa con un po’ di stucchi barocchi e qualche colonna di marmo, e si è cominciato dall’autore più caro, un amico delle giornate di lettura durante la gioventù, quel Tolkien che per ore e ore contribuì a distrarre una generazione che si sentiva malmenata dalla Storia e, come gli hippy, sognava qualche California talmente poco definita che infatti non esisteva. Ora che abbiamo il potere – si dicono i sangiulianini – rimandiamo il nastro all’indietro, in fondo non è poi passato tanto tempo, come si diceva nei formidabili anni Settanta, riprendiamoci la vita che ci volevano togliere. Giorgia è contenta: questa mostra è meglio di niente.