C’è la necessità-possibilità di un’alternativa politica al pensiero così quasi unanimemente presente e in ogni caso dominante nelle istituzioni e nei partiti anche in Italia. La necessità è certamente tale per coloro che pensano alla pace come al fondamento della politica per un largo schieramento di forze e persino come levatrice della ricostruzione, in questa parte del mondo, di una soggettività critica forte, di ciò che un tempo, in Italia e in Europa, era rappresentata dalla sinistra.

Oggi, il Papa è solo nel cielo della politica, invece questo cielo dovrebbe essere pieno di protagonisti della costruzione di un mondo nuovo, nel quale sia bandita la guerra e la conquista della pace sia promotrice di una radicale trasformazione del modello sociale nel quale siamo imprigionati fino a rischiare la catastrofe. L’esposizione dell’umanità e del Pianeta al rischio della sua autodistruzione è oggi alla portata della guerra atomica come della crisi devastante generata dal rapporto tra questo tipo di sviluppo e la natura. Ma c’è anche in profondità la questione che Marx ed Engels avevano già annunciato come connessa alle sorti generali del capitalismo e della lotta di classe. Secondo gli autori del Manifesto, «una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta». Il tema della pace non è destinato al campo dei sogni. Si impone invece come decisivo, in primo luogo, qui ed ora, sul terreno dei movimenti, della partecipazione, della costruzione del popolo della pace.

Dei movimenti, esso ha tutte le caratteristiche, a partire da quello di essere sempre carsico. Ora, piuttosto che abbandonarsi alla contemplazione di cosa esso è stato nei suoi punti più alti, sia nell’elaborazione del pensiero politico che della partecipazione di massa (i cento milioni che hanno riempito le piazze del mondo contro la guerra all’inizio del millennio), è bene applicarsi ai sottili fili d’erba che faticosamente rinascono e alla loro possibile propagazione, malgrado il tanto diserbante irrorato dalla politica corrente. Quando rinasce la marcia della pace a Perugia e ad Assisi, rinasce con essa una speranza. Su queste pratiche di speranza contro la guerra, ovunque si manifestino, dovrebbe poggiare la costruzione di un pensiero politico adeguato, alternativo a quello che sembra configurarsi come pensiero unico, quello che sta costituendosi a partire dalla risposta data dal concerto degli Stati atlantici, all’orribile guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Un’altra classica, lontana, previsione sembra così inverarsi in questa nuova drammatica emergenza. «Il pensiero dominante è il pensiero della classe dominante».

Il pensiero sostenuto da un sofisticato e pervasivo sistema di comunicazione è però elementare, privo di qualsiasi complessità, anche se, ovviamente, come sempre, non privo di pezze d’appoggio nella realtà. In esso, la guerra di Putin diventa Putin stesso e il suo regime tout court diventa il nemico. L’opposizione guerreggiata e la resistenza del popolo dello Stato ucraino viene sostenuta e assorbita nell’Occidente trasfiguratosi nell’alleanza atlantica. La reazione di quest’ultima alla guerra è costituita da una ritorsione crescente per indebolire e fermare il nemico, facendo ricorso a tutti i mezzi a disposizione, politici, giuridici, economici, sino all’invio delle armi agli ucraini, sulle spalle dei quali è lasciata la possibilità della trattativa, semmai con una cauta chiamata in causa di un terzo come mediatore. In questa logica, tutti i mezzi di dissuasione sono usabili in un’escalation che sembra affidare allo scontro armato il suo esito, piuttosto che all’iniziativa politica e alla grande diplomazia. L’unico limite militare assunto è quello di non valicare la linea di ciò che presumibilmente condurrebbe alla terza – e per tutti distruttiva – guerra mondiale. A questo, si aggiunge il limite economico per autoprotezione, quello di non adottare misure di ritorsione che pregiudicherebbero anche le proprie economie.

Il pensiero unico è prigioniero dell’ipocrita “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Esso si separa, senza dichiararlo e finanche a volte dicendo di volersi rifare ad esso, allo spirito del secondo dopoguerra, quando però invece della creazione delle Nazioni Unite e delle costituzioni democratiche, vengono adesso, dai governi europei, sepolte quelle, insieme alla temperie culturale e politica che le aveva generate. Come ieri, la moneta, così oggi, l’armamento dovrebbe co-determinare la nuova Europa. Difficile dire “peggio mi sento, eppure”. Anche senza metterci il carico dei corredi intellettualmente impresentabili, ma che spesso accompagnano il nucleo portante del pensiero unico, questo basterebbe a rendere evidente la necessità di una idea alternativa dell’Europa, nel mondo, per chi pensi che anche al suo interno vadano affermate le idee per una lotta senza quartiere alla diseguaglianza, nella costruzione di una nuova società ispirata a un ecologismo integrale. Tra quelle idee non necessarie al pensiero unico, ma non incompatibili con esso, tanto che spesso lo accompagnano, basti ricordare sia la tesi di un Putin figlio dell’Urss, che quella di lui come di un nuovo Hitler, come quella che lo vorrebbe eliminato fisicamente e soprattutto dalla più pericolosa e inquinante, la tesi dello scontro tra la democrazia occidentale, da un lato, e l’autocrazia, dall’altro, configurando così uno scontro di civiltà, in realtà inesistente.

Quest’ultima tesi avrebbe il pregio per le classi dirigenti di cancellare in un solo colpo la crisi dell’Europa e dell’Occidente e le cause profonde, strutturali e politiche che le hanno generate, a partire dalla globalizzazione capitalistica, con le conseguenti crisi sociali e democratiche. L’alternativa, dunque, dovrebbe partire proprio da qui, dalla storica necessità di costruire un’altra Europa, portatrice nel mondo di un modello sociale, democratico ed economico originale e promettente per tutto il mondo intero e, in specie, per i suoi sud. Il suo farsi ponte tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest, la indurrebbe a riscoprire una traccia andata perduta della sua storia, quella di una neutralità attiva dell’Europa. La traccia l’aveva già segnata la sinistra italiana nel suo momento di massimo consenso popolare, in tutte le sue componenti comunista, socialista, cattolica e in politica, e l’aveva lasciata col suo impegno per la pace e la lotta per il disarmo atomico.

Chi pensa che tutto ciò fosse una copertura degli interessi dell’Unione sovietica è costretto anche a cancellare che uno degli uomini della sinistra più autonomi, non solo dell’Unione sovietica, ma anche del Partito comunista italiano, tanto da aver coniato la definizione di “a-comunista”, Riccardo Lombardi, è stato il presidente di quei partigiani della pace. Quella politica esprimeva una cultura profonda che potrebbe riemergere in una nuova vita. Ieri, fuori dai blocchi, oggi fuori da una contesa economica e statuale che ci porterebbe dentro la globalizzazione e il dominio dei mercati e la sua crisi, che ci condurrebbe ancor più minacciosamente nell’instabilità, nell’incertezza e nella privazione di futuro per le sue genti. Sulla guerra a pezzi e ora sulla guerra scatenata da Putin, e sulla replica miope dell’Occidente, si vorrebbe ricostruire, dentro l’Europa, la Frontiera, con un nuovo muro, senza la grande politica. Ma l’Europa dovrebbe invece al contrario costituirsi per spezzare le frontiere, per attraversarle, per proporsi come un polo del dialogo, come costruttrice di pace. Un’Europa neutrale, forte del suo essere disarmata e invece produttrice di sue proprie e originali forze organizzate per l’interposizione nei conflitti, per il soccorso in mare e in terra di chi cerca una terra da calpestare come condivisa e un tetto sotto cui vivere, in una comunità aperta e accogliente. Pensiamo all’opposizione tra le armi e la cultura delle traduzioni.

Le prime sono del mondo cupo e minaccioso di oggi; le seconde sono la premessa di un rapporto creativo tra diversi, tra diverse persone, tra diverse comunità, tra diverse società, tra diverse culture e religioni, tra diverse organizzazioni sociali, fatte di diversi rapporti di potere tra le classi, come tra i cittadini, annunciando così anche un diverso rapporto tra gli Stati. L’Europa politica che si liberi dai lacci e dai lacciuoli che oggi la imprigionano e che la rendano un nano politico, lontano dai suoi popoli e separata da tante parti del mondo, un’Europa che non dovrebbe temere il mare aperto. È questa l’Europa di cui ci sarebbe bisogno. Un vecchio e geniale sindacalista tanti anni fa ci invitava a lasciare sempre le consolidate sponde con un appello a provarci. Ci diceva che per imparare a nuotare, bisognava buttarsi in acqua. L’appello varrebbe a maggior ragione per quell’impresa politica che volesse prefigurare un futuro diverso dell’esistente. Vale, in particolare oggi, quando tutto sembra precluso fuori dal drammatico disordine esistente, vale per la rinascita della politica di cui abbiamo bisogno. Non si dovrebbe allora avere paura delle discontinuità, né di proporsi obiettivi apparentemente irrealistici, come quello del disarmo universale e del dissolvimento delle alleanze militari, come quello dello scioglimento della Nato.

La Nato già ieri aveva perso la sua ragione di esistenza, con la fine del mondo diviso in due blocchi contrapposti. Lasciarla reinventarsi ora, sulla ripresa dello spirito di belligeranza e sull’aumento delle spese permanenti dei Paesi europei, e restarci dentro acriticamente, non avrebbe alcun senso per un’Europa che volesse scegliere come fondamento della sua ricollocazione internazionale la pace e il dialogo tra i popoli. Se essa si rivolgesse al Mediterraneo potrebbe già trarre, dentro la sua vicenda storica lunga e tormentata, il filo dell’incontro del dialogo tra religioni, culture, esperienze, lingue e vissuti, sulle sponde diverse di uno stesso mare, quello che chiamiamo “il mare nostro”. Un’Europa diversa, larga, “dall’Atlantico agli Urali”, e promettente, si collocherebbe così nel nuovo mondo da costruire in pace e con la pace, a cominciare dalla sua stessa vita interna.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.