Il libro di Willy Valudin
“La notte arriva sempre”, un racconto di fuga dall’incubo americano

Tanti anni fa, durante una trasferta negli Stati Uniti, guidai ininterrottamente, fermandomi solo per dormire, da Seattle, la città dei cercatori d’oro, dei Boeing e di Jimi Hendrix, giù fino alla downtown di Los Angeles, coi grattacieli scintillanti nell’oscurità notturna, attraverso la mitica interstate numero 5: il tapis roulant di molta letteratura yankee, da Henry Miller a Jack Kerouauc fino a Raymond Carver. Avevo noleggiato un’Oldsmobile da cui non riuscivo a staccarmi.
Come quasi tutti i giovani europei, ero affascinato dal viaggio in sé: ciò non mi impediva di notare con un certo raccapriccio lo scarafaggio sotto il tappeto prezioso della società opulenta che attraversavo. Percepivo qualcosa di stantio in quel mare di bandiere a stelle e strisce, vetri e acciaio, navi che attraccavano in porto provenienti da oltre oceano. E non erano soltanto i vagabondi addormentati all’ombra delle sopraelevate, accanto ai carrelli sottratti ai supermercati, sovraccarichi di cianfrusaglie, a farmelo capire. A Portland sostai soltanto per mangiare un trancio di pizza da un fornaio italiano. A quel tempo Willy Vlautin, nato a Reno nel 1967, doveva essere ancora un ragazzino, ma con ogni probabilità intuiva già tutto il falso splendore del sogno americano. Poi è diventato famoso, prima come musicista (Richmond Fontaine, oggi voce e chitarra dei Delines), poi come scrittore. Cinque libri al suo attivo: l’ultimo di quest’anno, appena pubblicato in Italia, s’intitola La notte arriva sempre (Jimenez, traduzione di Gianluca Testani, pp. 206, 18 euro), è ambientato proprio nella metropoli dell’Oregon, di cui ricordo soltanto una “recreation area” recintata fra due condomini dove adolescenti neri scatenati, futuri campioni di basket, si allenavano inesausti dalla mattina alla sera.
Nel romanzo di Vlautin è un agglomerato di edifici in piena trasformazione con freeways che vorticano attorno nel traffico incessante. Le agenzie immobiliari sono cuori pulsanti dentro un macchinario in piena fibrillazione. La protagonista si chiama Lynette, indimenticabile nella sua incrollabile determinazione a sopravvivere in mezzo alle intemperie. Dove trovi la forza di reagire alle avversità resta un mistero. Abita alla periferia della città insieme alla madre alcolizzata e a Kenny, fratello cerebroleso, bisognoso di tutto: l’amore che nutre nei suoi confronti sembra essere in grado di ripagarla di ogni insoddisfazione. Del resto, se non ci fosse lei, ogni cosa andrebbe in malora: «La radio suonava, la pioggia cadeva, e attraversarono il ponte Fremont nel buio della notte. Kenny guardava le luci sfocate di Portland oltre il finestrino. Lynette era appoggiata alla portiera e sospirava».
Dal momento in cui decide di trovare i soldi per comprare la casa in cui vive, fronteggiando la madre che le rema contro, gliene accadono di tutti i colori: l’intrepida fanciulla ne esce sempre a testa alta, anche se con le ossa rotte. Mentre si agita alla ricerca spasmodica del denaro, entrando in contatto con la feccia della società, di cui lei stessa fa parte, il lettore scopre a poco a poco il suo triste passato: uomini che l’hanno sfruttata quand’era piccola, amiche pronte a spingerla sulla strada della perdizione, rapinatori che vogliono ingannarla, ricettatori senza scrupoli. Quest’umanità sfatta e tracotante viene peraltro ritratta nella medesima fragilità del personaggio principale: memorabile il ritratto di Cody, psicopatico tossicomane, con la bottiglietta di Jägermeister sempre a portata di mano, gli orecchini, le braccia ossute, magro e smunto, che fuma una Marlboro dietro l’altra. A lui Lynette si rivolge per farsi aiutare ad aprire una cassaforte trafugata nella casa della sua migliore amica. Sembra il peggiore dei possibili interlocutori, eppure quando meno te lo aspetti, magari di notte, seduto in auto davanti al ristorante cinese, ti rivela da dove viene e perché è diventato ciò che è: «Appena sono uscito dal carcere, mia madre mi ha dato il mio fondo universitario. Diecimila. Ero al verde e lei lo sapeva che non sarei mai andato al college, così mi ha dato quei soldi per evitare che mi trasferissi da lei».
E cosa dire di JJ Benada, ex protettore di Lynette? «Aveva cinquantasette anni, adesso, i capelli tinti lunghi fino alle spalle e un paio di occhiali spessi. Non portava una maglia e le braccia e il petto erano ricoperti di tatuaggi sbiaditi». Sembra quasi di rivedere Matthew “Sport”, nella memorabile interpretazione di Harvey Keitel in Taxi Driver.
Per raccontare questo sfacelo umano e sociale Willy Vlaudin mostra una velocità esecutiva degna di Jim Thompson, anche se in fondo al suo thriller trovi sempre la magia del vecchio scrittore novecentesco, quella che, ad esempio, ancora brilla in qualche racconto di Richard Ford. Quando non ti accontenti di narrare un evento o descrivere un paesaggio, ma vorresti metterci dentro qualcosa di più. Storie di passioni mortificate sullo sfondo di un nucleo urbano squallido e fatiscente: file di case al termine di strade asfaltate, al cui interno s’intravedono pensionati seduti sul divano sfondato davanti al televisore con le lattine di birra sparse sul pavimento e la coperta elettrica sui fianchi, parcheggi semiabbandonati nel retro dei ristoranti, fra immondizia e cartacce, officine dove loschi figuri trafficano su auto rubate.
È lì che fino a ieri Donald Trump ha trovato i pascoli più floridi e ora Joe Biden avrà pane per i suoi denti. Ma il tempo di Lynette è già scaduto. Eccola caricare in macchina le ultime cose e prendere il largo verso il nulla, come la protagonista di Nomadland, pur avendo trent’anni meno di lei : “Al tavolo della cucina, scrisse un biglietto a sua madre per dirle addio e che le voleva bene. Dopo essersi chiuso il portone alle spalle, lasciò la sua chiave nella cassetta della posta e salì sulla Buick. Si versò una tazza di caffé e mise in moto la macchina. Pioveva ancora ed era passata la mezzanottte quando imboccò l’interstatale e puntò verso est.”
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