Per due elementi spaventosamente sottovalutati si segnala l’infame vicenda della caccia all’ebreo andata in scena l’altra sera ad Amsterdam. Il primo: che le forze armate israeliane si sono mobilitate per recuperare e assistere i propri connazionali aggrediti dalla turba antisemita. Il secondo: che, per il commento di quei fatti, si è adunato con solerte immediatezza l’esercito negazionista che imputava quelle aggressioni al rango dello “scontro tra tifosi”, non senza qualche buona allusione alla “verità” sottaciuta e cioè che gli aggrediti si erano abbandonati a intemperanze e dunque, in buona sostanza, se l’erano cercata.

Il fatto che lo Stato Ebraico debba mandare uomini e mezzi per proteggere l’incolumità degli ebrei nella città europea che non garantisce l’incolumità degli ebrei – inseguiti e pestati per strada, rinchiusi negli alberghi assediati dalla folla che vuole linciarli – è cosa che dovrebbe allarmare e scandalizzare, se possibile, anche più dell’ignominia in perfetto stile Kristallnacht che si consumava in quella città. Una cosa disse, ormai molti anni fa, Benjamin Netanyahu, questo primo ministro che vanta tanti fondati motivi per essere contestato: disse che era tempo che gli ebrei della diaspora andassero in Israele, tutti, perché tornavano a non essere più sicure, nessuna di esse, le società dei paesi in cui gli ebrei risiedevano. Nessuno voleva che avesse ragione, ma aveva ragione.

Ha preso infatti a riproporsi, e si ripropone sempre più frequentemente e con gravità crescente, ciò che era inimmaginabile nel calore delle speranze ma non nella freddezza del giudizio razionale: il profilo della belva antisemita, mascherato da decenni di infingimenti fuorvianti e precari, ha preso via via a svelarsi, a rinunciare a nascondersi, e ora è spudoratamente libero in faccia al mondo che continua a far finta di non riconoscerlo. Ma le fattezze di quel profilo immondo erano perfettamente formulate e ben evidenti anche sotto quei camuffamenti: bastava, a non fraintenderne gli intendimenti e a non sottovalutarne la pericolosità, avere occhi per vedere e memoria per ricordare. Vedere, banalmente, che la bestia era la stessa che vedemmo facendo finta di non vederla. E ricordare che cosa successe, quando vedemmo ciò che fingemmo di non vedere.

Quel che si è scritto nelle scorse ore e quel che ancora leggeremo – perché è un processo di sprofondamento verso un fondo tutt’altro che raschiato – appartiene ulteriormente ai tratti della stessa belva. Si è scritto che erano “ultras”. Che avevano inneggiato all’IDF (l’esercito israeliano). Le contestualizzazioni del pogrom rivolte a coprire il vero addebito, il motivo genuino della giustificazione: e cioè che erano israeliani ed ebrei. Vale a dire gli appartenenti alla schiatta di cui è nuovamente lecita la persecuzione perché l’ennesima colpa la contrassegna, la colpa genocidiaria, l’infanticidio di massa, la pulizia etnica e – finalmente si può denunciarla, finalmente è possibile fargliela pagare – la pretesa usurpatrice di avere uno Stato e di difenderlo.

È ormai proclamato senza timori il dovere degli ebrei di soggiacere, ovunque essi si trovino, alla “comprensibile” reazione delle società contaminate dalla loro presenza. È ormai proclamato senza pudori il diritto di quelle società di farsi repellenti alla presenza ebraica, una presenza assolta dal pericolo di essere aggredita a patto che si faccia ben riconoscere ammettendo di appartenere a quella stirpe sterminatrice e sottoscrivendo che Israele è il nuovo Reich che fa ai palestinesi ciò che i nazisti fecero agli ebrei. Sempre che basti farsi riconoscere in quel modo, perché al papà e al bambino che l’altra sera, ad Amsterdam, erano inseguiti da quel branco, non sarebbe bastato bardarsi di kefiah per sfuggire alla caccia. I ragazzi presi a calci mentre imploravano pietà dicendo di non essere ebrei non avrebbero potuto sperare di farla franca nemmeno se avessero giurato sull’immondizia del loro paese.

Giusto come il pacifismo e il volontariato per i palestinesi non salvò la gente dei kibbutzim dai massacri, dagli stupri e dai rapimenti del 7 ottobre. Sono i delitti e le violenze di cui tutti quelli, in Israele e fuori da Israele, sono identicamente destinatari per l’identica ragione: perché sono ebrei. I delitti e le violenze di cui è lecito scordarsi, i delitti e le violenze che è lecito rubricare in altro modo, attribuire ad altre ragioni legittimanti, perché nella storia c’è sempre stato un altro motivo, c’è sempre stata un’altra causa a spiegare la violenza contro gli ebrei. Una causa che non risiede in chi esercita quella violenza, ma in chi la subisce.