Le rinnovate tensioni geopolitiche che stanno facendo saltare le regole, le istituzioni e i principi dell’ordine internazionale portano molti osservatori a evocare il richiamo alla “guerra fredda”, ossia a un’epoca dominata da antagonismi irriducibili piuttosto che dalla ricerca del consenso su soluzioni negoziali. Allora come oggi, così si afferma, il mondo si trova diviso in blocchi contrapposti: da una parte l’Occidente a guida americana e i suoi alleati, dall’altra Cina e Russia, che hanno messo da parte antiche rivalità e oggi cooperano per ridefinire l’ordine internazionale in modo tale da riflettere i nuovi equilibri geopolitici.

Ora, analogie e parallelismi con altre fasi storiche ritornano spesso nelle interpretazioni del presente, ma, anche se talvolta tornano utili per interpretare una nuova realtà, possono avere un chiaro effetto distorsivo a favore della continuità. In questo caso, servono a riaffermare l’idea che la continuità fondamentale nella storia sia la lotta per il potere e che dunque gli Stati siano destinati a impegnarsi in un gioco a somma zero. La competizione tra grandi potenze, che sembrava un fenomeno ormai consegnato al passato, è tornata a essere la chiave di lettura delle rinnovate tensioni internazionali – tra Occidente e resto del mondo, in buona sostanza.

A rendere poco realistico, e anzi fuorviante, il richiamo alla guerra fredda, è il fatto che la stabilità dell’ordine internazionale si basava sull’egemonia statunitense, capace allora di rappresentare una credibile deterrenza contro le minacce e di distribuire in modo abbastanza imparziale i vantaggi di potere tra i suoi alleati. Le difficoltà cui è andata incontro l’economia americana hanno però sottratto risorse alla politica internazionale, per cui Cina, Russia e (ma solo per certi aspetti) il Sud globale hanno rafforzato le proprie ambizioni. E ciò ha, tra l’altro, contribuito ad accentuare l’instabilità delle aree periferiche del pianeta, là dove, cioè, la promessa americana di una deterrenza estesa fatica ormai a realizzarsi. La realtà, dunque, è oggi molto diversa da quella dell’epoca della guerra fredda, e la mappa mentale elaborata per un passato in cui gli Stati Uniti erano in grado di conseguire obiettivi come il contenimento e la sconfitta sostanziale dell’Unione Sovietica non serve più da orientamento.

L’assetto tendenzialmente multipolare del sistema internazionale, come quello in cui lentamente stiamo transitando, potrebbe invece suggerire altre analogie e altri parallelismi, tratti da epoche in cui i principali azionisti del sistema internazionale, cioè le grandi potenze, hanno condiviso norme e istituzioni in grado di creare gli strumenti per affrontare e disciplinare la coabitazione di soggetti con visioni e interessi diversi. Certo, la multipolarità non equivale al multipolarismo, e anzi il rischio è che la diffusione del potere possa acuire la rivalità strategica tra potenze consolidate e potenze emergenti. Tuttavia, guardare alle relazioni internazionali con la lente della guerra fredda porta a ridurre i rapporti tra le grandi (e medie) potenze nella sola prospettiva dei rapporti di forza, per cui la politica mondiale si riduce a un gioco a somma zero che prevede vincitori e perdenti, una vicenda in cui non ci sono sfumature: o amicizia esclusiva o inimicizia radicale. Il che non aiuta a comprendere le aree intermedie di tensione e ostacola la capacità di immaginare relazioni più sfumate, come quelle tra Stati Uniti e Cina, che potrebbero richiedere una “coesistenza gestita” invece di una competizione frontale.

Inoltre, la storia della guerra fredda tende a distorcere la percezione dei negoziati con rivali e alleati scomodi, facendoli apparire come accordi provvisori e senza futuro. Le soluzioni negoziali, come nel caso della crisi dei missili di Cuba o della distensione con l’Unione Sovietica, tendono a essere ricostruite come scelte drammatiche e rivoluzionarie, piuttosto che nell’ottica di compromessi ispirati a una visione pragmatica. E ciò limita la capacità di negoziare accordi improntati in termini più pratici e realistici. Inoltre, l’immagine della “nuova guerra fredda”, oggi utilizzata anche per spiegare tensioni che riguardano regioni diverse da quella originaria, come il Medio Oriente, oppure per dare conto della crescita, a livello mondiale, delle spese per armamenti, comporta una visione militarizzata della politica estera. La ripetuta evocazione di quel periodo oscura altre epoche, durante le quali la diplomazia ha avuto un ruolo centrale rispetto alla minaccia dell’impiego della forza. Non è certo negli interessi della comunità internazionale e neppure degli Stati Uniti contribuire ad alzare i toni di una polemica che rischia di creare una situazione di incomunicabilità sulla scena politica mondiale.

Maggiore attenzione andrebbe piuttosto prestata al fatto che non mancano alcuni segnali importanti nella direzione di un ordine in fieri: per esempio, l’esistenza di trattati multilaterali sottoscritti tra paesi che non rientrano nella stessa costellazione geopolitica, oppure l’impegno a rispettare le regole pattuite anche quando non vengono osservate. A condizione, tuttavia, di non restare prigionieri dell’immagine della continuità per cui, oggi come all’epoca della guerra fredda, la scena globale è dominata dall’idea dello scontro tra l’Occidente e le grandi potenze revisioniste e autoritarie. Perché, in fondo, oggi il mondo non è veramente diviso in due, dal momento che molti paesi del Sud del mondo appaiono distanti rispetto a entrambi i “blocchi” e hanno acquisito un peso geopolitico molto superiore a quello dei “paesi non allineati” del passato. Anche per questo sarebbe opportuno guardare al presente (e al futuro) con gli occhi non più rivolti al passato.

Edoardo Greblo, Luca Taddio

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