Servizio pubblico
La nuova missione della Rai è fare cultura, non populismo: serve un nuovo quadro normativo
Oggi al via gli Stati Generali del Servizio pubblico. L’affidamento alla Rai è automatico? E alla Rai così com’è oggi? Spettatori ed esigenze sono cambiati, la legislazione no
Tutto ha inizio 100 anni fa. Il Duce Benito Mussolini decide che la comunicazione deve essere come il demanio delle spiagge, una prerogativa dello Stato e così la radio di Guglielmo Marconi & soci diventa EIAR. 20 anni dopo, lo Stato democratico conferma la sua proprietà della radio e la chiama Rai; 10 anni dopo, quando dagli USA arriva la televisione, anche quella è dello Stato che ne concede la gestione alla sua azienda radiofonica. Con una “cosa” nuova, la missione di servizio pubblico. Da allora sono trascorsi 70 anni, tutto è cambiato ma non la missione.
Oltre due secoli fa l’umanità viveva il passaggio dalla società agricola a quella industriale. Oggi siamo nel bel mezzo della transizione dalla società industriale a quella digitale. L’etica della responsabilità impone di valutare le scelte sulla base delle conseguenze per l’intera comunità. L’accelerazione dei processi di trasformazione ha messo in discussione le stesse forme della convivenza. La democrazia è continuamente lesionata e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni è sempre meno: basta osservare i risultati di tutte le consultazioni elettorali. C’è il rischio di una crisi.
Emergono fenomeni complessi: l’invecchiamento della popolazione, fenomeni migratori incontrollati, la finanziarizzazione dell’impresa, i nuovi colonialismi e le guerre, la rivoluzione digitale.
La comunità nazionale è chiamata ad una sfida che è errato ridurre a economica, sanitaria o climatica, è prima di tutto una sfida filosofica perché il pensiero guida e precede le scelte. La cultura è il farmaco idoneo alla cura, è quello che a noi manca, ma è indispensabile in un processo che ha messo in discussione il primato del mediatore culturale minando alla radice il valore della democrazia, “creando” un nuovo protagonista, il leader politico, capace di fornire “consigli per gli acquisti” di tutto ciò che risponde alla “attualità culturale” dei suoi follower.
Purtroppo la Rai ha avuto un ruolo significativo nel diffondere il virus di questa malattia, il populismo: la manipolazione dei fatti e la loro strumentalizzazione sono state usate come strumenti di persuasione fin dai tempi di Samarcanda. Lungo il percorso degli ultimi trent’anni la Rai e la stessa missione di servizio pubblico hanno perso la propria identità fino al punto che i telespettatori non avvertono più alcuna differenza tra la programmazione della Rai e quella delle televisioni commerciali, nazionali o estere che siano. Privata della sua organizzazione in tre reti, espressione di pluralismo culturale e politico, l’azienda è stata messa sotto la tutela del governo. La responsabilità di quanto è accaduto e sta accadendo è un po’ di tutti e di nessuno, conseguenza com’è di un’ormai troppo lunga disattenzione al problema dei contenuti del servizio pubblico televisivo: per quanto possa sembrare paradossale nessuna norma è stata mai scritta per una sua definizione.
La natura pubblica della Rai, impresa alla quale il servizio è affidato, è sembrata garanzia sufficiente ai fini della corrispondenza alle esigenze pubbliche della programmazione. Il punto di snodo è stato individuato nella nomina del Consiglio di Amministrazione, demandata a soggetti pubblici in funzione della tutela degli interessi generali. Non ci si è resi conto che questa costruzione è meramente teorica: poteva funzionare nel secolo scorso in uno scenario largamente compromissorio, dove il pubblico era la conformità agli interessi politici prevalenti che esprimevano il Cda e ad una cultura televisiva che di quegli interessi, per convenzione e spesso per convenienza, era espressione. È evidente che occorre una legislazione che vada oltre il “problema” della Rai: sono necessarie regole nuove per l’intero sistema televisivo caratterizzato tra l’altro da una notevole presenza di operatori internazionali, sia sul versante della produzione che della gestione di reti televisive. Si tratta di formulare una legge che definisca prima di ogni altra cosa i contenuti e gli obiettivi di una nuova missione di servizio pubblico e una conseguente rinnovata organizzazione della Rai in grado di ridare legittimità al pagamento di una tassa per finanziare l’espletamento del servizio, che non deve però essere limitato all’attività produttiva dell’azienda.
Ci troviamo infatti di fronte ad una vera e propria emergenza: dalla moria delle librerie, alla chiusura delle sale cinematografiche, dai teatri che non possono andare avanti, all’asfissia delle orchestre, agli enti lirici che sopravvivono a stento, ai musei grandi e piccoli che non possono permettersi mostre ambiziose per mancanza di fondi, ai siti archeologici abbandonati a sé stessi. La risposta non può essere quella delle tradizionali sovvenzioni che il ministero della Cultura ha praticato fino all’incredibile sperpero di danaro pubblico con il marchingegno del tax shelter.
Una nuova missione per la Rai dovrebbe essere quella di utilizzare i 1400 – 1700 milioni di euro di ricavi da canone per assolvere al mandato di sostenere istituzioni culturali e imprese promuovendo la produzione e la distribuzione dei prodotti culturali, di spettacolo e di informazione, attraverso l’acquisto e l’uso dei diritti garantendo il pluralismo e la necessaria nuova alfabetizzazione digitale. Se la Riforma del 1975 aprì alla Rai la stagione del pluralismo culturale e politico, oggi possiamo dire che un servizio pubblico nel settore della comunicazione può legittimarsi come interesse e utilità pubblica che si sintonizza sul pluralismo di natura socio antropologica e non più politico-ideologica.
Siamo infatti immersi in una dimensione in cui ognuno dei milioni di cittadini del nostro paese – ma vale per l’intera Europa – ha una sua esclusiva identità comunicativa, caratterizzata dai modi e i tempi della sua vita, dagli alfabeti che pratica, dalle culture che adotta nelle diverse fasi della sua evoluzione. Il digitale risponde a questa nuova necessità umana di svincolarsi da identità e categorie di massa, proponendo, come diceva Baumann, la dignità della propria differenza nella nuova economia dell’informazione, in cui si produce valore mediante informazione. Le risorse di intelligenza artificiale, con la loro attitudine ad essere sempre più personalizzate, ci segnalano un ulteriore escalation di questa individualità aumentata. A questa platea cosa potrà mai servire un servizio pubblico che dovesse continuare a basarsi sulle ispirazioni di un gruppo di manager scelto per l’appartenenza e la fedeltà alla maggioranza politica del momento?
Oggi al centro della scena ci sono alcuni domini che usano il pluralismo individuale per legittimare il potere di centralizzazione che esercitano mediante la selezione di linguaggi, procedure e potenze di calcolo. Parlo dei soliti noti: Google, Amazon Facebook, Open Ai, Netflix, Spotify. Pensiamo a come questi due ultimi brand riescano a disegnare offerte altamente aderenti ai profili emozionali che ricavano da un inesauribile flusso di dati che gli consegniamo inconsciamente. All’Intelligenza Artificiale si sta per aggiungere il sistema 6G: una ulteriore rapida evoluzione della tecnologia digitale che configura un mercato di tipo nuovo che richiede una maggiore capacità creativa e una diversa finalità della presenza nel mercato dei diritti, questa è la sfida che abbiamo di fronte. Il problema è se, rinnovando tra due anni la convenzione tra lo Stato e la Rai, la nostra classe dirigente intenda accettare questa sfida.
In questo ginepraio di algoritmi come deve operare la Rai e in cosa si esplicita il servizio pubblico? La classe dirigente che siede in Parlamento e sui banchi del Governo ha qualche idea in proposito? Siamo lontani dal vero se affermiamo che i progetti di legge di cui si è tornato a parlare nei convegni e nelle commissioni parlamentari sono del tutto inadeguati rispetto alle necessità? Si offende qualcuno se misuriamo l’assoluta asimmetria dei palinsesti della Rai, con la necessità di lavorare su quella materia prima che è informazione più dati?
Oggi, lo vediamo in alcune concrete applicazioni della BBC, si guadagna titolo per esigere un canone diventando un fornitore di soluzioni nazionali, diciamo, nell’ambito delle programmazioni individuali. Penso ad esempio ad un modello trasparente e condiviso di raccolta e selezione dati che dovrebbe essere messo a disposizione delle comunità. Penso a nuovi cantieri di produzione digitale, in cui il servizio pubblico faccia lavorare il paese nello sviluppo di linguaggi digitali per i bambini e gli adolescenti. Penso ad una produzione di informazione che tenda sempre di più a personalizzare gli itinerari di ricerca e non a caricaturare i vecchi tg. Penso ad una azienda indipendente dal governo e dai partiti capace di costruirsi una identità europea e di esercitare la sua funzione di servizio pubblico contribuendo alla crescita culturale della comunità nazionale.
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