Nel procedimento contro Israele avviato dalla Corte Internazionale di Giustizia su ricorso del Sud Africa è intervenuto lo Stato di Palestina. Lo ha fatto con una memoria di 25 pagine che illustra – prevedibilmente – la sfilza di ragioni per cui Israele si sarebbe reso responsabile di aver programmato, deliberato e perpetrato atti di genocidio del popolo palestinese, o di non averne prevenuta e punita la commissione. L’apparato probatorio su cui pretende di fondarsi l’allegazione palestinese non è meglio – né più – del poco o nulla su cui si appoggiava l’originario ricorso sudafricano: qualche articolo di giornale, qualche sgangherato rapporto di una screditata consulente dell’Onu (quella secondo cui gli Stati Uniti “sono soggiogati dalla lobby ebraica”), una raccolta di dati non verificabili o di accertata falsità, nonché il riporto di disparate dichiarazioni di esponenti politici israeliani che documenterebbero l’intento genocidiario dello Stato Ebraico.

E proprio su questo fronte l’intervento palestinese nel procedimento dell’Aia si segnala molto significativamente per un callido esperimento diversivo. Dopo aver proclamato, infatti, che le responsabilità israeliane sono plateali e pronte per essere condannate senza tante storie, lo Stato di Palestina argomenta che Israele “impedisce la circolazione di ogni informazione che dimostri che il genocidio sta avendo corso”, rendendo in tal modo “difficile per la Corte” accertare se lo Stato Ebraico ottempera o no alle proprie obbligazioni di rispetto del diritto internazionale. Delle due l’una, dunque: o quelle prove c’erano, e allora significa che la presunta attività di nascondimento e censura in cui si sarebbe impegnata la malvagità israeliana è risultata inefficace; oppure quelle prove non c’erano, e allora il corteo di ricorsi del Sud Africa (ne ha fatti tre), cui infine si è accodato lo Stato di Palestina, costituiva una sceneggiata avvocatesca destituita di qualsiasi base apprezzabile.

Non basta. Proprio come sfuggì di bocca, in udienza, al rappresentante sudafricano, così sfugge dalla penna palestinese l’assunto secondo cui il “genocidio” attuale porterebbe in realtà a compimento una politica che rimonta al 1948, cioè al tempo della fondazione dello Stato di Israele. Non che servisse, ma è la dimostrazione che questi procedimenti costituiscono un espediente addirittura dichiarato di contestazione del diritto all’esistenza di Israele. Rappresentano, cioè, la continuazione in carta bollata di una guerra che non è rivolta a contrastare le politiche di un governo e a condannarne le eventuali responsabilità, ma a contestare la legittimità dell’esistenza dello Stato Ebraico, appunto, sin dalla fondazione.

Un ultimo dettaglio (chiamiamolo così). Lo Stato di Palestina che reclama giustizia contro Israele dovrebbe essere “terzo”, rispetto al conflitto. Perché, allora, non dedica un rigo non si dice di condanna, ma nemmeno di menzione, dei crimini commessi da Hamas contro la stessa popolazione palestinese? D’accordo che è un processo contro Israele, non contro Hamas, ma sarebbe stata una buona occasione per chiarire che lo Stato di Palestina non c’entra nulla con Hamas.