Ci sono, sono in difficoltà, chi dovrebbe “difenderli” in sostanza non lo fa; allora risolvono a modo loro: qualcuno chiede un periodo di riposo, e pazienza se il lavoro si scarica sugli altri, alimentando il circolo vizioso della stanchezza, dello stress, della sindrome da “burnout”. Sono i preti italiani, certo non tutti, però in tanti in grande difficoltà dopo un anno di pandemia. Sono esposti a un grande rischio contagio per il contatto con i fedeli, come dicono le cifre: ben 182 i sacerdoti deceduti per Coronavirus (al 12 dicembre 2020).

Sono in difficoltà per il venire meno della dimensione comunitaria e dunque del senso stesso delle attività, a causa della riduzione del lavoro dei gruppi parrocchiali che operano a scartamento ridotto per rispettare le norme sanitarie. E denunciano l’aumento delle pratiche burocratiche da assolvere. Ma soprattutto soffrono per la solitudine che si accentua in quelle realtà dove c’è un solo sacerdote si trova a gestire più parrocchie. Si tratta del sistema delle “unità pastorali”, in vigore in diverse diocesi: un solo sacerdote per più parrocchie ma coadiuvato da gruppi di laici. Un sistema che la pandemia ha messo sotto forte stress, in qualche caso facendo saltare equilibri già complicati. Se “prima” del Coronavirus il sovraccarico era compensato dai rapporti interpersonali e dalla solidarietà dei fedeli, “dopo” le difficoltà si accentuano.

E nelle pieghe della vita quotidiana si insinua la sindrome da “burnout”, lo stress da sovraccarico di lavoro e di tensione emotiva che colpisce chi fa dell’aiuto agli altri una professione. I medici, gli infermieri, i volontari, gli operatori umanitari, lo conoscono bene. Oggi gli abbiamo dato anche un altro nome, più in linea con i tempi: “pandemic fatigue”, per riferirsi allo stress collegato al clima di restrizioni nella vita sociale. Ma alla fine sempre di “burnout” si tratta e tra la vasta platea degli operatori sociali e sanitari c’è una categoria nuova che lo sta scoprendo: i preti.

Un allarme chiaro, certificato, messo nero su bianco, arriva dalla diocesi di Vicenza per merito del settimanale cattolico La Voce dei Berici che ha coraggiosamente aperto al tema. In queste settimane sono stati segnalati due fenomeni. Il primo: l’aumento dei contagi e delle vittime tra i sacerdoti, i più esposti al contatto con i fedeli. Giampaolo Padovan, presidente dell’Associazione Collaboratori Familiari del Clero (Acfc) di Vicenza nonché coordinatore regionale del Triveneto lo dice chiaramente: «Anche i preti sono una categoria a rischio e andrebbero messi in lista subito dopo medici, infermieri, operatori sanitari e Rsa – sostiene Padovan -. Tra funerali, celebrazioni, visite ai malati, incontri personali in canonica, la loro attività è ad alto rischio».

Il secondo fenomeno è anche più profondo. Dalla diocesi di Vicenza è arrivato sul sito di informazione cattolica “Settimananews”, parlando apertamente di una più generale situazione di “crisi”, a partire da alcune situazioni locali. A Vicenza, ma a quanto pare anche in altre realtà d’Italia, ci sono sacerdoti che hanno chiesto un periodo di sospensione dalle attività pastorali, per riflettere. «È cominciato tutto con il lockdown – racconta don Daniele Pressi, 30 anni -. Davanti ai momenti di crisi reagisci con gli automatismi, e questi ti dicono chi sei. Ho vissuto chiuso in casa, ma nella mia vita non è cambiato niente quando per tutti gli altri è cambiato tutto. È vero, non c’erano riunioni, non c’erano incontri, ma tra preti abbiamo continuato a dire messa. Mi sono chiesto che vita stessi vivendo, avevo la sensazione di qualcosa di artefatto. Sono stato messo di fronte all’evidenza che siamo molto “clericali” come preti e come comunità. Nella mia testa sapevo benissimo, quando sono stato ordinato, che noi preti non siamo più cristiani degli altri, ma mi sono reso conto di non saperlo con la vita». Da qui è scaturita una riflessione che è proseguita nei mesi estivi per poi sfociare nella decisione di questo sacerdote di prendersi una pausa.

Dice un altro prete: «Il lockdown ci ha spogliati di centomila attività e ridotti quasi a niente. Personalmente mi ha riconsegnato la fedeltà alla preghiera, ma ho visto anche molti preti ‘traballare’ senza riunioni. È stato un periodo che mi ha molto interrogato». Per chi decide di fermarsi, ci sono altri sacerdoti che devono lavorare di più per colmare i vuoti nei ranghi. Già in diverse diocesi la scarsità del clero porta a unificare più parrocchie sotto un solo parroco. Scrive don Luigi Maistrello su “Settimananews”: «Intanto si procede come si è sempre proceduto, con la consapevolezza che tra dieci anni i preti dovranno gestire un numero doppio di parrocchie rispetto al presente, perché le cose non saranno certamente migliorate».

E aggiunge: «Il prete del futuro sarà costretto a ritagliarsi un nuovo ruolo, proprio per uscire dall’angoscia in cui sta precipitando in questi decenni, costretto com’è oggi ad essere trottola che gira intorno a se stessa senza una precisa meta. Oggi è costretto a correre tra sempre più comunità con un unico fine: tenere vivo l’impianto sacrale che per secoli ha retto la cristianità. Ma, se non ci sono le comunità, come sarà possibile sostenere il sacro? Il presbitero ha bisogno di relazioni e queste devono essere alte. Ha quindi diritto ad una famiglia. Non lo dico nel senso classico. Per famiglia intendo quella costituita da un gruppo di persone con cui creare condivisione, sentirsi a casa e poter fare progetti a lungo termine».

Sotto sotto, tra stress pastorale, scarsità del clero, accorpamenti di parrocchie, esigenze di “ricaricare le batterie”, spunta una parola proibita: “burnout”, termine che gli psicologi conoscono bene ma il clero italiano ancora troppo poco, figurarsi i vescovi! Padre Giuseppe Crea, psicoterapeuta e missionario, ha studiato per primo, in Italia, le problematiche del “burnout” tra i missionari e poi tra sacerdoti e operatori pastorali. Ricerche sintetizzate in diversi libri, che restano a prendere polvere sugli scaffali invece di essere utilizzati per “prevenire”. I missionari, ci dice padre Crea, ma non solo loro, «direi anche i sacerdoti, i catechisti, gli operatori pastorali, tutti i professionisti nella relazione di aiuto, e i sacerdoti lo sono, troppo spesso si trovano a lavorare in situazioni difficili, con tensioni di ogni genere e in condizioni a volte al limite della sopportazione fisica».

La sindrome del burnout «è una particolare forma di adattamento a queste situazioni stressanti. Però fronteggiare lo stress non significa evitarlo ma imparare a gestirlo. Il consiglio: ricercare strategie di coinvolgimento equilibrato con la gente e di attenzione alla propria salute psicofisica». Soprattutto, ci dice ancora padre Crea, «quando le persone si accorgono che il loro fare è fuori tempo massimo, o il loro operare non ha più alcuna incidenza sociale, o quando percepiscono che non ci sono più forze per continuare a fare come si è sempre fatto, la malattia è ad uno stadio avanzato». Sempre con grande coraggio, il settimanale cattolico della diocesi di Vicenza ha intervistato il vescovo, mons. Beniamino Pizziol, che non si è sottratto alle domande “scomode”. E sul periodo di difficoltà ammette: «Sono state messe in crisi le relazioni, gli impegni personali, gli incontri, la libertà di movimento e altri aspetti. Qui emerge una domanda di fondo: su chi e dove è costruita la mia vita, la mia persona, il mio ministero, le mie relazioni?».

Ma aggiunge la classica risposta da prete: «È bene meditare, ancora una volta, sul Vangelo di Matteo, capitolo 7, versetti 24-27: la casa edificata sulla roccia o sulla sabbia. Se uno si isola e pretende di attraversare da solo, con le sole sue forze, questo tempo di pandemia, rischia di venirne travolto». La domanda successiva: non sarà che le “unità pastorali” – cioè affidare più parrocchie ad una equipe unica e mista, un sacerdote e dei laici – siano una concausa del problema piuttosto che una soluzione? Risposta netta: no, tutt’altro, sono un grande aiuto. Peccato che altri sacerdoti dicano esattamente il contrario.

In sostanza il problema è assai semplice: la pandemia ha messo alle corde un modello di Chiesa tutto centrato sul ruolo del sacerdote. La soluzione naturalmente non ce l’ha nessuno e anche l’altro ieri il cardinale Bassetti ha elogiato il grande lavoro dei sacerdoti ma neanche una parola su come invertire la tendenza del “burnout”. Perché la risposta si chiama investire sulla formazione dei preti e su un coinvolgimento dei laici (quelli seri, non i laici che sono più preti dei preti come si vede in tante situazioni) e dunque occorrono tempi lunghi che nessuno ha. Il “burnout” è alle porte, magari si potrebbe tentare di prevenire l’incendio ricorrendo alla psicologia e al dialogo tra laici, sacerdoti, vescovi, alla ricerca di soluzioni, invece di arrivare come al solito troppo tardi per cercare di tamponarlo, perché spegnerlo certo non è possibile.

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Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).