Si dice giustamente di non giudicare mai un libro dalla copertina. Eppure la recezione pressoché unanime dell’autobiografia di Angela Merkel appena pubblicata (Rizzoli) presenta tutti i sintomi di una sindrome piuttosto diffusa nella categoria dei politici a riposo: quella di dover difendere a oltranza un’eredità politica e di non esprimere rimorsi o rimpianti per le decisioni prese. Al timone della Germania per 16 anni, Merkel è stata testimone di una parabola che ha portato l’Europa dal suo punto forse più alto – il Trattato costituzionale poi fallito nel 2005, stesso anno del suo arrivo alla Cancelleria – a una serie non interrotta di crisi che l’hanno vista volente o nolente protagonista e che continuano tutt’ora: da quella finanziaria e dell’Euro a quella dei rifugiati dopo le cosiddette primavere arabe, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, tecnicamente cominciata nel 2014 e anche a causa di alcune sue decisioni.
Come la Turchia e la Russia
16 lunghi anni nei quali capi di Stato e di governo si sono alternati in tutta Europa e nell’Occidente eccetto, curiosamente, in altri due paesi: la Turchia e la Russia. E in politica estera è a questi due paesi, che hanno gradualmente riscoperto velleità imperiali da seconda e terza Roma, che Merkel ha legato mani e piedi il suo destino. Con Ankara ha avuto un rapporto ambivalente e opportunistico. Da sempre opposta all’idea di un’adesione turca all’Unione europea giudeo-cristiana, la cancelliera cercò di assecondare le pulsioni occidentaliste del primo Erdoğan, con il risultato però di spegnere qualsiasi speranza della Turchia verso l’Europa.
Il punto più basso di Angela Merkel
Il punto più basso: il patto sui rifugiati del 2016 che Merkel negoziò personalmente a nome dell’Europa. L’accordo doveva porre rimedio all’afflusso fuori controllo di centinaia di migliaia di arrivi in seguito alla guerra in Siria. Con il patto faustiano di Merkel, poi aspramente criticato dalle organizzazioni umanitarie, l’Europa si impegnava a erogare 6 miliardi di euro in cambio dell’impegno di Ankara a riprendersi i richiedenti asilo. Un modello che in pratica ha messo l’Europa sotto ricatto costante di Erdoğan, ma che ha fatto scuola e ispirato diverse variazioni, dalla Tunisia all’Egitto, fino alla più recente dell’accordo italiano con l’Albania.
Con Putin c’è stato un legame intimo per necessità e pochissime virtù. La Germania sin dalla fine della Guerra fredda ha impostato la sua politica estera sulla strategia di indirizzare la transizione di paesi autoritari attraverso il commercio (“Wandel durch Handel”). Il presupposto, tragicamente smentito dalla Storia, è che ogni paese fosse effettivamente destinato alla democrazia se ben indirizzato con il crescente benessere. Il risultato è stato invece una dipendenza dal gas russo a basso costo (di cui, va detto, l’industria tedesca si è avvantaggiata enormemente) e una forma cronica di appeasement verso la progressiva involuzione del regime di Putin.
Gli accordi di Minsk
La cartina tornasole di questo fallimento strategico è rappresentato dal modo in cui la Germania ha affrontato le diverse crisi che si sono succedute in Europa orientale, dalla Georgia all’Ucraina. Nel fatale vertice della Nato del 2008, Merkel ostacolò l’apertura di una possibile adesione dei due paesi, che Putin puntualmente ripagò con l’aggressione alla Georgia nell’agosto di quell’anno. In Ucraina, nel 2014, Angela fu protagonista dei cosiddetti accordi di Minsk, che congelarono l’avanzata russa ma rappresentarono a tutti gli effetti il preludio dell’invasione del 2022. Episodi che oggi guardiamo come gravi e tragici errori di valutazione, ma che Merkel nelle sue memorie rivendica a spada tratta.
Barack Obama è forse il terzo statista con il quale Merkel ha fatto il pezzo più lungo di strada. Con lui ha almeno condiviso modi e valori, come ebbi modo di constatare di persona nell’estate 2013 quando la cancelliera lo invitò a parlare ai berlinesi dall’iconica porta di Brandeburgo. Più tristemente, con Obama oggi condivide questo atteggiamento difensivo e impenitente verso gli errori del passato e sprezzante verso Trump.
Per quanto difficile possa essere sintetizzarla, la lunga parabola di Merkel è metafora di un grande equivoco tedesco ed europeo: quello di un paese e di un Continente che per molti versi si sono comportati come una grande Svizzera in mezzo allo scacchiere internazionale. Paciosi, indolenti alle responsabilità e poco inclini alle decisioni. Col senno del poi ovviamente è facile esprimere giudizi; ma questo svilimento di una grande democrazia nel cuore dell’Europa e del peso specifico dell’Europa nel mondo sembrano oggi essere un’occasione mancata e di cui tutti paghiamo le conseguenze.