Il rito della “Parola dell’Anno” dell’Oxford Dictionary ci accompagna dal 2004, con “Pod” che celebrava l’era del podcasting, fino a “Selfie” (2013), passando per “Emoji” (2015), “Post-truth” (2016), “Toxic” (2018), “Climate emergency” (2019) e “No contact” (2020).
Queste parole, come capsule temporali, catturano lo spirito del tempo. Quest’anno, la scelta è caduta su un termine spietato: “Brain rot”. Marciume cerebrale. Nell’anno dell’AI, l’immagine è un cervello in decomposizione saturo di contenuti digitali effimeri, privi di sostanza.

L’appiattimento intellettuale

Nel 1854, Henry Thoreau si chiedeva: “L’Inghilterra si sforza di curare il marciume delle patate (potato-rot), ma nessuno sforzo sarà fatto per curare il marciume cerebrale (brain-rot), che ha effetti ben più ampi e fatali?”. Thoreau denunciava l’appiattimento intellettuale di una società distratta, incapace di nutrire il pensiero con idee complesse. Il paragone era potente: la peronospora della patata, solo in Irlanda, causò quasi un milione di morti per fame.

L’informazione-intrattenimento

Neil Postman aveva previsto il brain rot. Nel suo libro ‘Divertirsi da morire’, scritto un anno dopo il simbolico “1984” di Orwell, descrive come l’informazione sia diventata intrattenimento. Se Orwell temeva una dittatura basata sul terrore, Aldous Huxley, nel Mondo Nuovo, preconizzava una dittatura del piacere: non saremmo stati oppressi da ciò che odiamo, ma distrutti da ciò che amiamo. Postman vedeva una società che si distraeva a morte. Oggi, questo è il “Brain rot”: il degrado cognitivo indotto dai social.

La ridotta capacità di concentrazione

L’emblema è TikTok? Negli USA, la piattaforma rischia il bando per motivi di sicurezza nazionale. Ma al di là della geopolitica, il vero problema riguarda la salute mentale, soprattutto dei più giovani. Peter Walla e Yu Zheng, della Sigmund Freud University di Vienna, hanno evidenziato con studi neurofisiologici che chi passa più di quattro ore al giorno a guardare brevi video manifesta una ridotta capacità di concentrazione. Il cervello, bombardato da clip di pochi secondi, perde la sua prontezza.
Non è solo distrazione. Il brain rot è un vero e proprio rincoglionimento. Un sovraccarico di contenuti usa-e-getta che sabota l’attenzione e soffoca il pensiero critico. Non sorprende: la continua ricerca di gratificazione immediata, stimolata dai meccanismi dopaminici dei social, impoverisce la nostra capacità di riflettere. La profondità cognitiva si dissolve in un mare di video insulsi, meme e trend effimeri.

I minuti persi a guardare video superficiali

Non è tutto da buttare. I social possono essere strumenti educativi e favorire l’accesso alle informazioni. Ma il “Brain rot” è una diagnosi culturale che mette a nudo una realtà innegabile: stiamo sacrificando la complessità sull’altare della semplificazione. Ogni minuto speso a scorrere contenuti superficiali è un minuto perso. Semplicemente sì. Inesorabilmente sì.
La scelta dell’Oxford Dictionary è un campanello d’allarme. Il vero anti-riformismo sta nella distrazione di massa, nella superficialità che spegne la nostra capacità di comprendere il mondo. La domanda è urgente: possiamo ancora riprenderci?

Riscoprire la complessità

La scelta di “Brain rot” non è una condanna inevitabile. È un invito a riscoprire la complessità.
Viviamo nell’epoca storica migliore di sempre per progressi scientifici e qualità della vita, in cui l’intelligenza umana è capace di creare altra e ultra-intelligenza, seppure artificiale. Ma la parola dell’anno scelta dall’Oxford Dictionary è “rincoglionimento”. Forse i due fenomeni – intelligenza e rincoglionimento – sono connessi. Per sfuggire a tanta complessità, abbiamo bisogno di distrarci, di fuggire. Però esiste un rischio: diventare dipendenti dalla distrazione fino a precipitare in un gorgo da cui non si torna indietro.
Mentre discutiamo se proibire o meno i social ai giovani, ricordiamocelo sempre: a rincoglionirci siamo anche noi adulti.