Il 19 luglio due cortei a Palermo, l’uno contro l’altro. Lucia, Manfredi e Fiammetta, i figli del giudice Borsellino, assenti per assenza di verità e di giustizia. La Presidente del consiglio, Giorgia Meloni, il Presidente della regione, Renato Schifani ed il Sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, costretti ad una commemorazione blindata, lontana dalla gente di Palermo, da quelli che nei giorni delle stragi invasero le strade, appesero i lenzuoli, gridarono la loro indignazione, anche contro i politici di allora, i rappresentati delle Istituzioni considerati traditori.

Roberto Scarpinato, uno di quelli «ammessi» alle commemorazioni in via D’Amelio, ha dichiarato: «31 anni quella strada resta interdetta ai riti della retorica di Stato e alle passerelle delle autorità. È un luogo nel quale i rappresentati delle istituzioni non potranno ripresentarsi senza disagio sino a quando non sarà fatta piena luce sulle complicità di Stato nell’esecuzione della strage e nei successivi ripetuti depistaggi. Il disagio è ancora più forte quest’anno».

Lui è un Senatore della Repubblica, prima di essere Senatore è stato magistrato, ha indagato, è uno dei convinti assertori della trattativa tra Stato e mafia. Lui si astrae, si tira fuori dalle «autorità», a lui che ha potuto giocare la sua partita nel campo della giustizia, quello legittimo dei processi ed ha perso, a lui la passerella è concessa. Sì, ad uno che disconosce le sentenze emesse in nome del Popolo italiano, paradossalmente è stato donato il pass di accesso in via D’Amelio.

Ma siamo certi che la memoria di Paolo Borsellino meriti tutto questo? Siamo certi come dice Scarpinato, che ora è come allora? Che non sia cambiato proprio nulla? Che quegli uomini, a maggio e a luglio del 92, siano morti invano? Io non credo, ma l’isteria di questi giorni, sembra invece confermarlo, nell’assoluta mancanza di rispetto nei confronti di chi è morto per ridare dignità al nostro Paese piegato dalla mafia, per ricercare la verità, per trovare i colpevoli e consegnarli alla giustizia. La memoria di Paolo Borsellino meriterebbe unità, «sacralità», non dovrebbe essere scalfita dalle polemiche.

Come tutte le volte che celebriamo un Santo – in questo caso laico – chi si sognerebbe di contestare, di organizzare il dissenso, di scontrarsi con le stesse forze dell’ordine che hanno lasciato morti per terra nella lotta alla mafia. È vero: la mafia non spara più, è diventata il male assoluto, oggettivo, per tutti, è questa è stata la più grande vittoria dei nostri eroi antimafia, ai quali oggi, solo oggi viene riconosciuto l’eroismo. Ma se l’Italia si mostra così litigiosa nel giorno del ricordo del suo più grande eroe, mostra il volto della sconfitta di fronte alla criminalità organizzata.

Non riusciamo a restare uniti nemmeno nel ricordo di un uomo che sapeva benissimo che sarebbe stato ucciso per servire lo Stato e non ha avuto alcuna paura, avrà dedicato alla certezza della morte che arrivava qualche nervosa sigaretta in più, il dolore per i propri cari, ma non si è fatto piegare, non si è fatto zittire, anzi. Si è fatto ammazzare per noi, per rendere migliore la nostra società, ha lasciato che fosse il suo ricordo a sopravvivere al tempo.

Ogni anno rinnoviamo la sua memoria per celebrare la sua immortalità, ma non sappiamo nemmeno regalargli un’unica marcia. Non sappiamo regalargli una giornata scevra da polemiche, ognuno si arroga il diritto di interpretarlo, di comunicare il suo pensiero autentico: «Paolo avrebbe fatto le barricate contro la riforma della giustizia annunciata dal Governo», ancora Roberto Scarpinato. In tanti oltre lui si ergono a censori e vanno oltre la giustizia costituita perché più delle sentenze valgono i teoremi.

E più dei «professionisti», adesso crescono i «sacerdoti dell’antimafia», con le loro sacre scritture a cui devi attenerti o se in difformità, abiurare e se non lo fai o sei affiliato alla mafia o alla P2. Bontà loro. Fa molto più audience, ma anche tanti più danni, sventolare il flirt Stato-mafia, non celebrare la vittoria per la cattura di Matteo Messina Denaro, perché in realtà «si è lasciato acchiappare». Per i «sacerdoti dell’antimafia» non conta celebrare i successi, conta dissacrarli. Non serve la verità da ricercare tutti insieme per i troppi misteri rimasti ancora irrisolti, per le agende scomparse, per i covi ripuliti, per i pentiti che deviano i binari su cui corre il treno della realtà, conta una verità, che sia di una parte. Conta più un accesso riservato ad una commemorazione che una commemorazione di tutti.