Loredana Perla è professore ordinario di Didattica e Pedagogia speciale all’Università degli Studi di Bari. È anche stata nominata coordinatrice scientifica della Commissione di revisione delle Indicazioni nazionali, il gruppo incaricato di rivedere i cosiddetti «programmi scolastici». Abbiamo discusso con lei di patriarcato ed educazione sentimentale a scuola, temi tornati in auge dopo le affermazioni del ministro Valditara durante la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin. Di educazione sentimentale, che a molti pare un tema recente, Perla si è occupata in tempi non sospetti, ben 22 anni fa, con un libro intitolato – guarda un po’ – Educazione e sentimenti: interpretazione e modulazioni (Editrice La Scuola, 2002).

 Educazione sentimentale: ce n’è davvero bisogno?
«Moltissimo, tanto più perché viviamo la fine del patriarcato come modello di ordine sociale».

Anche secondo lei, quindi, il patriarcato è finito, come ha detto Valditara?
«Certo che è finito. Chi ancora lo mette in dubbio è fuori dalla storia».

Ma a quanto pare non sono finite le violenze sulle donne…
«Appunto, proprio perché il patriarcato è finito, almeno intorno agli anni Settanta del secolo scorso, e ha lasciato come suo residuo antropologico il maschilismo».

In che senso?
«Nel senso che l’uomo, caduto il paradigma sociale, si è attaccato al machismo. Quello che non è più riconosciuto socialmente e pacificamente si cerca di riconquistarlo in modo reattivo, con un attaccamento a un’immagine maschilista in cui neppure gli uomini credono più».

E quindi?
«Quindi si rende necessaria quella che io definisco una riscrittura del patto sociale tra i sessi».

Ovvero?
«Dopo questi epocali cambiamenti, l’uomo è chiamato ad accettare l’autonomia della donna, il fatto che questa ha conquistato nuovi spazi pubblici e si afferma con qualità in tanti ambiti (alfabetizzazione, studi, capacità di leadership con una spiccata attitudine, tipicamente femminile, alla cura). La donna, a sua volta, è chiamata a divenire sempre più consapevole della differenza di genere, smettendo di pensare che emanciparsi significhi omologarsi al modello maschile. Oggi, per fortuna, quel femminismo è superato: siamo entrati in una fase di postfemminismo, che porta le ragazze a essere molto più consapevoli delle specifiche qualità femminili. Hanno scoperto che si può essere donne evolute senza dover per forza sforzarsi di somigliare agli uomini».

Cosa c’entra l’educazione sentimentale?
«L’educazione ai sentimenti può aiutare a prendere consapevolezza di questa differenza e a trovare punti di connessione tra i sessi. Per esempio, l’essere sensibili o portatori di lacrime, da parte degli uomini, può essere accettato da donne intelligenti ed educate. Questo accade, però, se c’è un’educazione ai sentimenti che mette in luce le qualità di entrambi e la complementarietà dei sessi. Il confronto tra i sessi, orientato dagli educatori e dalla ricerca, può davvero portare a un nuovo ordine sociale, maggiormente comprensivo delle differenze. Però c’è bisogno di verbalizzare tutto questo, c’è bisogno di spazi in cui poterne parlare con libertà. Spesso nei rapporti di coppia manca proprio questo spazio, e così capita che la ragazza non sia in grado di vedere la crisi del ragazzo, o leggere i segni di un amore che tende verso una deriva; al contrario, nel ragazzo, c’è talvolta difficoltà a capire il bisogno di libertà, di affermazione e di autonomia della propria compagna».

A chi spetta questa educazione sentimentale?
«L’educazione ai sentimenti si può fare ovunque, in qualsiasi contesto educativo o relazionale, ma ovviamente, se vogliamo costruirla in modo sistematico, con tempi lunghi, possiamo farlo solo a scuola, dove peraltro è già stata inserita nelle linee guida dell’Educazione civica, con riferimento all’educazione affettiva e di genere».

Spetta agli insegnanti o agli esperti?
«Non sono pregiudizialmente contraria ai progetti con esperti ma vedo l’educazione ai sentimenti come un aspetto fondamentale del profilo dell’insegnante. L’educazione passa dalla magistralità del docente nella dinamica della classe, dal suo accorgersi delle qualità dello studente, dalla sua capacità di cogliere la comunicazione non verbale, la luce o la depressione dei ragazzi. Aspetti che possono essere gestiti in classe se non sfociano in un bisogno psicoterapeutico».

Ma come si fa? Aggiungiamo, tra le tante, anche l’ora di educazione sentimentale
«Non ce n’è bisogno, secondo me. L’educazione affettiva si può fare con i romanzi Dostoevskij, con la scrittura narrativa, con l’outdoor education (le uscite fuori dalla scuola), lasciando spazi di racconto e riflessione su episodi critici (tra cui le dinamiche di bullismo), approcci peer to peer, con il cinema che è un mediatore perfetto per educare i sentimenti. Si può fare anche un film come Parthenope di Sorrentino, per esempio, che si apre con una citazione di Celine (“Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto”) e che dà la misura del rischio smarrimento cui può andare incontro l’uomo, si possono aprire traiettorie educative straordinarie. I ragazzi ce lo chiedono in tutti i modi: chiedono percorsi e relazioni che li aiutino a conoscersi e a conoscere l’altro».

Quindi, a suo parere, non ha sbagliato il ministro a parlare di patriarcato in occasione della fondazione Cecchettin?
«Per niente. Il ministro ha fatto un discorso solido e poco compreso. Del resto conosco personalmente la sua grande sensibilità sul tema dell’educazione al contrasto alla violenza di genere, un argomento su cui spesso si sofferma. Nel discorso all’inaugurazione della Fondazione Cecchettin, c’è stato un cortocircuito legato al fatto che il ministro ha voluto toccare più temi, ma quel messaggio è equilibrato, colto, dice cose oggettive e soprattutto ha un merito: aver riportato al centro della discussione pubblica un tema educativo fondamentale, la fine del patriarcato, che è stato eluso per troppo tempo e che per questo è ignorato da gran parte dei giovanissimi. Andrebbe ringraziato, non contestato».