Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero
“La pena è l’unico non indagato sulla fine di 80 esistenze”, la riflessione sui suicidi in carcere dalla solitudine del 41 bis
Nella solitudine della sua cella un detenuto al 41 bis da oltre due decenni ragiona, carta e penna alla mano, sul dramma dei suicidi in carcere che nel 2022 hanno raggiunto il drammatico numero di 84: persone che in carcere hanno preferito togliersi la vita. Una vera ecatombe che si è consumata nel silenzio delle istituzioni e che speriamo non succeda mai più. Riportiamo di seguito le sue parole nella lettera a Sbarre di Zucchero.
“Dei delitti e delle pene” (1764 C.B). a “I delitti delle pene” (2022)
Oggi dicembre 2022 il dato nefasto è che ottanta (80) Prigionieri nel perimetro di un avamposto Costituzionale si sarebbero giustiziati o sarebbero caduti nella lotta condotta contro i Prigionieri dai giustizialisti della pena(e). La pena(e) in flagranza di delitti obbliga alla seria riflessione critica sulla sua funzione storica e dei suoi effetti nel tempo dei giustizialismi politico/penali. Sono decenni ormai che impera nella comunicazione un preciso richiamo, un mantra, fobico ossessivo sulla certezza della pena, peraltro paura abilmente orchestrata, ma come dimostrato dai dati totalmente infondata. Al contrario invece cinquecentottantatre (583) suicidati in un decennio, e il lecito sospetto se classificarli “Suicidare o suicidi” (spinto al suicidio o uccide se stesso), sono la certezza che dovrebbe interrogare sull’incertezza della funzione Costituzionale della pena.
Quindi Suicidare o suicidio, la pena (e) è l’unico sospettato non indagato sulla fine di ottanta esistenze non vissute, morte nell’anno 2022 dentro un perimetro Costituzionale dello Stato Italiano! Perché? Azzardiamo noi la risposta? Noi che non abbiamo mezzi di indagine a disposizione? Proviamoci. Opera trasversalmente nello spazio politico una maggioritaria componente giustizialista egemone nella comunicazione dell’Agorà dell’informazione. Questa egemonia ben mimetizzata dalla necessità del pubblico dibattito, dà luogo alla formazione di narrazioni viziate geneticamente. La lettura giustizialista della pena(e) racconta con parole emozionali di ottanta vite fragili, del loro inevitabile epilogo, del male interiore che li attraversa, del Montaliano “mal di vivere”, dell’esagerata percezione dello stigma… causa ed effetto dell’autodecisione di cessare biologicamente di esistere (suicidio).
A quell’emozionale monologo narrativo omologante, manca il necessario scetticismo metodologico per iniziare una razionale ed esaustiva riflessione critica. Proviamo noi, imprigionati da decenni (30) a ricercare e trattare con severità i (il) perché sulla vita e la scelta di non viverla, operata consapevolmente da esistenze imprigionate nel corpo di cemento della prigione. Esistenze in attesa o all’esito del giudizio che decidono di riappropriarsi di se stessi e trasformare il proprio corpo nel campo dell’ultima battaglia contro la pena.
Adesso, prima dell’epilogo, domandiamoci cosa ha subito quel corpo espropriato dalla pena(e), quale delitto(i) ha commesso la pena su quel corpo imprigionato nel cemento. Iniziamo con una spiegazione in anticipo agli interrogativi sopra posti**. “La pena… è una specifica condizione condizionante che trasforma ‘l’anima’ (del prigioniero) in prigione emotiva di desideri, passioni, sentimenti… agisce nel tempo dell’essere mutilando l’esserci del sentire, del desiderare, delle passioni”.
© Riproduzione riservata