L’uscita di un Meridiano Mondadori dedicato ai Romanzi e racconti di Dacia Maraini (a cura di Paolo Di Paolo e Eugenio Murrali) è l’occasione per una lettura critica che sappia collocare la scrittrice nel nostro panorama letterario, al di là di equivoci o eccessivi appiattimenti (ad es. sul femminismo, certo per lei fondamentale, ma non al punto di oscurare tutto il resto). Si parte cronologicamente dal dittico narrativo della Vacanza e dell’Età del malessere (1962-1963), che ancora oggi conserva tutta la freschezza e sensualità di scrittura di una esordiente non ancora trentenne (il primo prefato da Moravia, che sarà suo compagno per venti anni), poi accanto ad inchieste, articoli, interventi, e laboratori teatrali, all’insegna di un intensissimo engagement, Memorie di una ladra (1972) che appassionò Pasolini per il sapiente lavoro su una lingua popolare d’antan, poi Isolina, e nel 1990 il fortunatissimo La lunga vita di Marianna Ucria, nel 1993 Bagheria e nel 2008 il Treno dell’ultima notte.

Mi attengo all’elenco presente nel Meridiano che non esaurisce la intera produzione romanzesca di Dacia Maraini. Nella seconda parte trovano posto le raccolte di racconti, da Mio marito (1968) fino all’Amore rubato (2012, storie di violenza sulle donne, fisica e psicologica, di cui è qui presente “Anna e il Moro”). Ma dei racconti non parlerò adesso. Per accostarsi alla sua opera multiforme – che ovviamente comprende anche poesia, drammaturgia, sceneggiature (molti film tratti dai libri), saggi – suggerirei, con qualche arbitrio, di cominciare da Bagheria, uno dei memoir più belli della nostra letteratura recente. Un libro affascinante e ipernarrativo, romanzo-reportage (da lei definito “ondulatorio”) di ambiente siciliano sull’infanzia, un racconto autobiografico quasi ripercorso in dormiveglia, per successive, lampeggianti visioni. Vi ritroviamo, al meglio, le qualità peculiari della scrittrice.

Una finissima attitudine alla ritrattistica: “Gli occhi del nonno Enrico sono del tutto simili a quelli di mia madre, grandi e azzurri, un po’ persi e sognanti. Sono gli occhi di chi ha una tale consuetudine con i privilegi del suo mondo da essere arrivato a detestarli” (dove la psicologia si fonde con la sociologia). Anche, a proposito delle due sorelle: quella “dalla testa piccola e tornita, gli occhi a mandorla quasi cinesi nelle loro palpebre teneramente gonfie”, e l’altra “dalle braccia rotondette, la pelle rossiccia tempestata di lentiggini”. Poi la già citata dimensione sensuale e corporale: basterebbe la pagina sull’odore del padre, “odore di un uomo solitario. Insofferente di ogni legame”, un odore di vecchie mele, di biancheria intima, di capelli scaldati dal sole, di scarpe vecchi e pane secco, di fiori macerati…. Poi lo scatto della invenzione saggistica, come la scoperta adolescente della poesia: leggendo Emily Dickinson, e cercando di carpire “il segreto di quel ritmo di ballo lento, succoso, solenne ma anche bizzoso e imprevedibile” concluderà che “la poesia non era molto diversa da quei rompicapi di geometria” che all’inizio le lasciavano la bocca amara.

Poi la documentazione minuziosa (di tipo antropologico), la storia politica e sociale di Bagheria, con la coraggiosa denuncia del potere mafioso e la indicazione dei pochissimi comportamenti civicamente virtuosi. Poi il racconto casto, di miracolosa leggerezza, del primo incontro – lei bambina – , con il sesso, con le attenzioni invasive (prossime alla molestia) di un adulto (“che avesse tra le mani il suo baco così morbido e indifeso fra le mie mani lo considerai allora un gesto di fiducia estrema di cui non potevo che inorgoglirmi”). Infine una ferita immedicabile, probabilmente all’origine della scrittura stessa: l’amore per il padre, “con uno struggimento doloroso come anticipando in cuor mio la distanza che poi ci avrebbe separati …immaginando la sua morte”.

Anche a partire dalla rilettura di Bagheria, ma senza trascurare il resto dell’opera narrativa, vorrei tentare allora di sottolinearne due aspetti. Anzitutto una tonalità emotiva singolarmente antisentimentale, contro qualsiasi cliché della “scrittura al femminile”. Paolo Milano parlò di “durezza”, della capacità cioè di raccontare la pubertà “senza il velo dei sentimenti”. Perfino Marianna Ucria, ritratto di una giovane sordomuta (e antenata settecentesca della scrittrice riscoperta in un quadro a Bagheria, nella villa dei nobili Alliata del ramo materno), è immune da qualsiasi retorica del patetico, alla Dickens. In primo piano c’è sempre una intelligenza partecipe ma anche capace di temperato distacco, una illuministica e inesausta voglia di capire, il puntiglio di decifrare l’enigma dell’esistenza.

A proposito dei versi di Dacia Maraini, Cesare Garboli ha invece parlato di una solitudine percepita come “una fatalità e insieme una malattia inspiegabile”, la “disperazione di essere ricondotti sempre a se stessi”. A questa solitudine la scrittrice ha cercato una qualche riparazione attraverso l’impegno civile a favore di nobili cause (la “gentile militanza” di cui parla nella bella introduzione Di Paolo, unico rimedio contro l’ideologia), l’adesione alla Contestazione del ‘68 e al femminismo, la vocazione a schierarsi con gli umili e i più fragili, la ricerca di una comunità fraterna. Ma è come se un residuo di questa solitudine restasse lì, incombusto, non interamente formalizzabile, e ogni volta tornasse a motivare un nuovo libro.

Con il padre aveva provato, in una involontaria “strategia” esistenziale, ad anticiparne con l’immaginazione la morte stessa, per attenuare la sofferenza. Forse di fronte a quella disperazione, serenamente e razionalmente accettata, il “distacco” – almeno apparente – della scrittura può servire a prevenire la sventura, il malheur connaturato alla condizione umana, per non farsene sopraffare del tutto. Concludo sulla immagine, all’inizio di Bagheria, del suo primo incontro con il mare, in Sicilia (pur provenendo dal Giappone, dove il padre era stato internato per antifascismo, non ne aveva mai fatto esperienza):”ora facevo conoscenza con quel corpo materno e sfuggente, maligno e gentile che è il mare e me ne sarei innamorata per sempre”. A questa natura, sempre “maligna e gentile”, generosa e un poco infida, tornano ogni volta tutte le storie che raccontiamo.