È dai tempi di Beneduce – che circa un secolo fa ha fondato l’IRI – che l’attraversamento stabile dello Stretto di Messina è diventato un impegno per lo Stato italiano nei confronti dell’incolpevole “isolamento” della Sicilia, ma anche risarcimento a un intero popolo per il sequestro di quello che rimaneva di una flotta mercantile privata di proprietà della famiglia Florio. Nell’Italia post-unitaria che costruiva i propri campioni di aziende pubbliche per correggere il disviluppo, la disparità territoriale, che industrializzava una economia essenzialmente agricola, si aveva la certezza che uno Stato giovane come l’Italia fosse nato anche sulla spoliazione economica del Mezzogiorno. Questa la consapevolezza di quella restituzione alla Sicilia che aveva fatto sì che fosse destinata alla realizzazione del Ponte una riserva di capitale che fino ai primi anni 2000 era indissolubilmente connessa alla realizzazione del Ponte.
Infatti è stata la ricostituzione del capitale finalizzato alla sua realizzazione il primo passo che ha dovuto compiere il Ministero dell’Economia e delle Finanze, riconducendo a una proprietà pubblica la società Stretto di Messina. Da sempre desiderato e temuto, il Ponte è oggi molte cose: è una certezza progettuale, una certezza tecnologica, un progetto ambientalmente sostenibile, un progetto tecnologicamente avanzato, un progetto nativo digitale. Un progetto che ha avviato recentemente il suo iter di approvazione con la Conferenza dei servizi e che sarà pronto entro l’estate, nonostante ci sia ancora chi pensa che 300 richieste di adeguamento ambientale possano scoraggiare nei tempi previsti la risposta dei tecnici o che si possa fare ricorso alle procure per accusare qualcuno di reato di sviluppo economico al fine di scoraggiarne i sostenitori.
Il Ponte è ancora una volta – a distanza di molti anni e dopo aver attraversato la fase post unitaria, quella post bellica, quella della prima e della seconda repubblica e della incompiuta terza – un forte richiamo per i politici, di quelli che usano l’antagonismo come cifra per profilare la propria azione politica: lo è stato per la DC siciliana dei tempi, per Craxi, per le forze che oggi cercano spazi in primo piano nella discussione politica del paese. E tanto accanimento politico fa sorgere un dubbio: il Ponte e il suo progetto sono pronti, ma gli altri e il contesto nel quale è calato sono pronti? E con altri ci riferiamo non solo agli altri stakeholders, come Anas e Rfi che da soli impegnano circa la metà del valore a oggi stimato del Ponte (è di circa 6 miliardi il valore delle connessioni a terra del Ponte), o come i territori calabresi e la città di Messina che ne fanno l’occasione per indicare il numero di nuovi occupati o di sperticarsi in vantaggi per l’industria locale.
Tra tutti gli stakeholders dobbiamo con forza considerare quello che definiamo sistema paese, cioè l’insieme di norme, procedure, autorizzazioni, aspettative di sviluppo, strutture economiche territoriali, capacità di adattamento delle dimensioni industriali, capacità di massimizzazione dei benefici collettivi che ne deriveranno. Il Ponte chiede un cambio di passo, dalla politica alle politiche, una strategia complessiva e massiva per il paese: richiederebbe nuovi strumenti di autorizzazione, nuove logiche concessorie, una nuova strategia di intervento dello Stato nell’economia, nuove politiche di approvvigionamento industriale, nuove modalità di contabilità pubblica che vadano oltre il triennio di cassa e competenze previste dall’attuale legge di Stabilità, una nuova linea Av sud, una nuova dimensione di intervento reale del peso dell’Europa negli sforzi di connessione e coesione di tutto il suo territorio come l’esclusione dal computo del deficit dei fondi necessari alla sua realizzazione e la finalizzazione di risorse europee per tutto il tempo che sarà necessario. Inoltre richiede una nuova normativa e una forte semplificazione delle norme in materia urbanistica come fu al tempo la riqualificazione dei Quartieri spagnoli di Napoli, oltre che il superamento della competenza comunale e regionale in materia.
A tutto ciò si aggiunge la convinzione che politiche di investimento di grandi infrastrutture sono in grado di produrre grandi cambiamenti nella distribuzione del PIL e delle modalità in cui quel PIL si produce misurando anche la riqualificazione funzionale all’urbanistica di molti territori. Richiede il coraggio di affrontare quei cambiamenti che già oggi hanno portato a un cambio nella direzione ora da Sud a Nord dei flussi energetici per abbattere la nostra fragilità energetica e digitale, richiede un maggior coinvolgimento di altri Ministeri come quello della Difesa e dell’Industria, richiede la consapevolezza del fatto che il Ponte è un grande prodotto industriale e una fabbrica esso stesso.
Il Ponte è in realtà un immenso progetto di sviluppo economico da inserire in un contesto industriale nazionale ed europeo, in un contesto geopolitico nuovo che vede il Mediterraneo e la sua necessaria “infrastrutturazione” come il vero ponte di connessione digitale, di sicurezza che non può essere solo valutato come incremento di unità di scambio o di crescita del PIL. Un Ponte tra quello che siamo e quello che vorremmo essere. Il Ponte siamo noi allo specchio, con tutte le nostre miserie e nobiltà.