Da sempre la politica ha giustificato l’uso della menzogna in certe situazioni, riconoscendola come un espediente che può a volte risultare utile o necessario. La relazione tra verità e politica è sempre stata complicata, e pochi considerano la sincerità come una virtù politica fondamentale.
Le bugie sono state strumenti comuni per politici, demagoghi e persino statisti. Ma cosa è cambiato con la post-verità? In passato le bugie politiche, pur violando la verità, riconoscevano implicitamente il valore della verità stessa, perché essere scoperti mentendo aveva conseguenze negative. Con la post-verità, invece, la verità non viene più violata oppure opposta, ma ignorata. Le bugie non portano più a conseguenze, anche se sono evidenti. La verità perde la sua importanza e viene trattata come se fosse relativa, sfumando la differenza tra verità e menzogna.
La distinzione
La post-verità crea uno spazio “post-politico” in cui non c’è più una chiara distinzione tra vero e falso e dove tutto sembra uguale, senza più un confronto basato sulla logica o la razionalità. Si tratta di una strategia mirata a distruggere la base comune su cui si fonda la società, il punto di riferimento necessario per la convivenza umana. Chi vive nel mondo della post-verità non è tanto ingannato, quanto immerso in un caos di “fatti alternativi”, senza disporre di strumenti per contrastare un potere discorsivo che si allontana sempre di più dalla realtà e dai fatti concreti. La post-verità è quindi una nuova forma di strategia politica, che non sopprime direttamente la verità come facevano i regimi totalitari del passato, ma mina la stessa idea di una realtà sociale condivisa.
I fattori che hanno portato alla diffusione della post-verità sono molti. Prima di tutto c’è il potere della Rete, dove specialisti della comunicazione e algoritmi automatici, spesso usati da siti anonimi, manipolano gli elettori, puntando su un pubblico che tende a essere poco coinvolto politicamente. Un altro fattore importante sono i social media, che creano ambienti isolati chiamati “filter bubbles”. In queste bolle, le persone vedono solo le “verità” che confermano le loro idee, senza confronto con l’opinione pubblica generale. Dentro le cosiddette “camere dell’eco” le verità sono assolute e non esistono altre versioni dei fatti. Chi fa parte di queste bolle non percepisce che ci potrebbero essere altre realtà, e tutto appare vero finché rafforza il senso di appartenenza al gruppo. In queste sfere chiuse, idee simili si ripetono all’infinito e i fatti verificabili diventano secondari, mentre le convinzioni personali prevalgono e assumono un valore inappellabile.
Il risultato è che chi vive nella propria bolla ha una visione del mondo che appare incomprensibile agli altri, perché è separata dalle logiche del dibattito pubblico, fatto di confronto e discussione. Non sono più le opinioni a dividere le persone, ma i fatti stessi, poiché si crede più alle proprie convinzioni che alla realtà oggettiva. Questo rende sempre più difficile trovare un terreno comune di dialogo tra cittadini e politici, frammentando la società in gruppi che non riescono a comunicare tra loro. La post-verità alimenta un clima di “guerre culturali” e polarizzazione ideologica, accentuando le divisioni tra persone con visioni politiche opposte e creando barriere comunicative. In questa logica, i “fatti alternativi” non sono solo propaganda, ma anche un potente strumento di coesione sociale. Come ha scritto il blogger Mencius Moldbug, le assurdità possono essere più efficaci della verità nel creare legami tra persone: credere in qualcosa di assurdo diventa una dimostrazione di lealtà al gruppo.
Ora, in che modo è possibile arginare un fenomeno che balcanizza la società in gruppi e sottogruppi che non dispongono più di una base comune di discussione? Alcune misure di contenimento sono possibili e possono tornare utili, adattati al contesto, alcuni princìpi proposti da Umberto Eco diversi anni fa. Anzitutto occorre diffidare di chi moltiplica continuamente opinioni, giudizi e pareri e affidarsi, piuttosto, a ciò che dimostra di reggere la prova del tempo e di diventare abitudine di comportamento. In secondo luogo sarebbe opportuno chiedere a chi propone tesi in palese contrasto con le opinioni condivise di provarle, perché le interpretazioni non hanno luogo nel vuoto, ma in un universo discorsivo più ampio. In terzo luogo verificare che, quando qualcuno esprime le proprie opinioni, dimostri di possedere le necessarie competenze rispetto al problema in questione. La differenza di principio che corre tra un terrapiattista e un astronomo andrebbe cioè generalizzata. In quarto luogo ricordare che una interpretazione non è una teoria. La teoria va al di là del singolo aspetto a cui si limita l’interpretazione, poiché ha una portata generale. Infine ricordare che, come dice il proverbio, “il tempo è galantuomo”.
Una “verità” che dura lo spazio d’un mattino e che il mattino dopo viene sostituita da una “verità alternativa” andrebbe presa per quello che è: un’arma politica volta a disancorare le opinioni dalla realtà e a cancellare il confine tra ciò che è reale e ciò che è costruito. Il rischio, senza queste precauzioni, è di rendere impossibile il recupero di una base comune per il dialogo democratico e il confronto equilibrato delle opinioni.