Napoli si presenta come un coacervo di problemi irrisolti. Quando, per due legislature, un sindaco decide di non governare, ci si avvede in pieno delle conseguenze proprio nel momento in cui si giunge verso la fine di quel doppio mandato. La città è preda di una completa anomia, lo spirito pubblico se ne è andato per i fatti suoi, scomparso dall’orizzonte prevalente; lo spazio pubblico è svuotato e impoverito, molto prima della contingenza di oggi, e in quel che resta vi prevale una ritornante condizione che un grande filosofo napoletano descriveva così: gli uomini, in una situazione di crisi, «vissero in una somma solitudine di animi e di voleri, non potendovi appena due convenire, seguendo, ognun de’ due, il suo proprio piacere e capriccio». Era Vico che rappresentava la condizione di cui scrive, da quell’angolo di mondo che era Spaccanapoli, e la sua riflessione era ispirata anche da ciò che passava davanti ai suoi occhi, sotto la sua finestra. E l’opera sua voleva esserne l’antidoto.
Tornando a oggi, la crisi è dunque la conseguenza prevalente del “non-governo”: è proprio esso a produrre l’isolamento di ciascuno nel proprio guicciardiniano “particulare”. Effetto culturalmente terribile in una città, soprattutto come la nostra, dove è improbabile andare alla ricerca di una solida struttura da ripristinare; e dove perciò il non-governo finisce con l’aderire a una sensibilità diffusa, presente in un popolo che non a caso, per la seconda volta, votò l’attuale sindaco. L’opera di rinascita è perciò assai difficile, e personalmente non mi sono sentito di fare il catalogo delle cose da fare, tutte, in un modo o nell’altro, già espresse nelle molte interviste diffuse sui giornali napoletani e anche nella pagina napoletana del Riformista. Mai come a Napoli si possono citare mille priorità. Devono fare parte di una agenda competente e scandita nel tempo del nuovo sindaco. Non seleziono, dal lungo catalogo possibile, un ordine tematico, non per pigrizia, ma perché mi pare una esercitazione priva di senso. C’è, infatti, la priorità di tutte le priorità, senza della quale le altre scadono a pia illusione, che è fatta dalla casella vuota della classe dirigente: di una grande città che vive nell’immaginario del mondo e nel proprio; che è stata, tra Otto e Novecento, uno dei centri della cultura nazionale ed europea; che ha la memoria della propria civiltà antichissima diffusa per le strade, mescolata al degrado.
Non vedo un uomo della decantata società civile che possa prendere tra le mani la cosa. La politica è una professione – l’uomo politico vero è un professionista consolidato – ed è di essa anzitutto che abbiamo bisogno a Napoli, dopo aver provato in varie occasioni, locali e nazionali, a quale degrado conduca l’improvvisazione dilettantesca, con o senza bandana. La politica non è innocente, lo sappiamo, ma bisogna uscire dai miti della spontaneità creativa, affidarsi a chi con la politica alimenta il proprio equilibrio interiore con la coscienza di dare un senso alla propria vita per il fatto di servire una causa. A questo politico spetta il difficilissimo compito di ridestare lo spirito pubblico, il senso del governo, di comunicare la preoccupazione ragionata per i problemi, di discutere, e poi definire, le priorità. Risvegliare la coscienza critica, insomma, e così avviare la formazione di una classe di governo, giovane e aperta al rinnovamento. Con un vero appello a chi saprà ascoltarlo, senza il quale c’è solo declino.

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